mercoledì 4 dicembre 2024

ALFREDO

 La storia che mi accingo a raccontare non è propriamente autobiografica anche se mi riguarda intimamente e per il famoso “effetto farfalla” riguarda tante persone che mi circondano. Ai protagonisti non è stata data l’opportunità di scegliere o di ritornare sulle proprie scelte, di stabilire cosa fosse giusto o ingiusto. In questo caso parlerei di caso o destino, qualcosa di ineluttabile da cui dipende la vita di ognuno di noi.

........

  Si chiamava Alfredo ed era napoletano verace, anche se nato in provincia di Salerno, in un paesino al confine con l’Irpinia, secondo di tre fratelli. Abitava a Napoli da sempre, in uno dei vicoli che dalla zona del centro si arrampicano verso il corso Vittorio Emanuele. Una zona di confine, in una città dove i confini sono sempre stati ovunque.

  Di lui oggi conservo tante foto in bianco e nero, una lettera, alcuni cimeli. Tra le fotografie, contenute in una vecchia scatola di latta, ce n’è una che lo ritrae da bambino nel cortile della scuola De Amicis , all’interno di una scolaresca variegata in cui si distingueva, senza grembiulino, per il suo sguardo da adulto, di sfida ma anche tenero e dolce. Probabilmente era stato uno scugnizzo, uno dei tanti. Un ragazzino che viveva in strada giocando a pallone e facendo a botte.

Il maestro nella foto ha uno sguardo un po’ truce, freddo, anche per gli occhi molto chiari, ma pareva non fargli alcuna paura. Eppure era molto severo e soleva educare i bambini a suon di bacchettate.

   In un’altra foto infantile era in villa comunale con il fratelli: Vittorio, di poco più grande e Angelo, in un passeggino, piccoletto, dai riccioli biondi.

....

  Era una delle solite giornate torride in Libia. Calore, sabbia e polvere da sparo: un miscuglio che gli ottundeva i polmoni da giorni. Insieme alla paura, che era diventata una compagna inseparabile da mesi ormai. Ne aveva viste di tutte, orrori derubricati a normalità, a stato delle cose.

  Era nel mezzo di una guerra, e come tale orribile, sporca, ingiusta e cattiva. Alfredo lo sapeva bene, non aveva granchè studiato ma il cervello lo sapeva far funzionare. Molto bene. Per questo, il suo innato senso pratico concluse che era importante sopravvivere, poi il peggio sarebbe passato e avrebbe realizzato tutti i suoi propositi.

  Era un bel ragazzo, tutti gli dicevano che somigliasse ad un famoso divo di Hollywood, Glenn Ford; le donne non gli mancavano ma lui ne aveva una soltanto nel cuore: la sua Maria, a cui scriveva lettere d’amore ovunque si trovasse in quegli anni disgraziati che suo malgrado lo avevano portato a girare il mondo. Povertà, solitudine, paure, venivano tutte cancellate dal ricordo di due occhi nerissimi, delle labbra rosse e i capelli corvini di una ragazza semplice, nata a  Mergellina, oltre quel mare che ora percepiva come nemico, come barriera che gli bloccava sogni e desideri.

  Quel giorno si parlava di grandi novità: lo sbarco degli alleati, l’8 settembre, la rivolta della sua Napoli;  la confusione era davvero tanta. Gli alleati diventavano nemici e quelli che erano dall’altra parte, nemici giurati fino al giorno prima, improvvisamente alleati. Ma le notizie erano confuse. Alfredo capì soltanto che sarebbe tornato presto a casa e la cosa lo rendeva euforico. Ripensò ai pericoli scampati, a quante volte era stato sul punto di perdere le speranze. Ora pareva che davvero qualcosa si stesse smuovendo.

  Non gli erano mai stati simpatici i vecchi alleati, i tedeschi,  ed anche per gli inglesi non nutriva una spiccata simpatia. Lo intenerivano le vittime, gli abitanti di quelle terre oltre il mare ricchissime di risorse, che gli uni e gli altri si proponevano di spremere all’osso. Così sarebbe stato Alfredo, per tutta la vita: sempre dalla parte dei più deboli, sempre a difendere chi vedeva calpestati i diritti elementari. La guerra lo prendeva di striscio, non odiava nessuno e cercava di usare le armi il meno possibile.

 Si beccò un paio di pallottole comunque e lo ricoverarono per qualche mese, sottraendolo a più cruente esperienze che lo avrebbero privato di alcuni commilitoni, amici più che altro.

  Fu ferito mentre trasportavano viveri su una camionetta attraverso il deserto. Fu un agguato che falciò letteralmente una fila di soldati seduti da un lato e che fecero scudo, coi loro corpi, alla fila di fronte dove sedeva Alfredo. Un puro caso. Se li vide morire addosso quei compagni e tante volte negli anni raccontò di quell’esperienza, che arricchiva ogni volta di dettagli, particolari, descrizioni minuziose. Tra i caduti Aldo,un barbiere di Bergamo, fissato con il biliardo e Salvatore di Roma, accanito scommetitore di cavalli. Li faceva rivivere quei personaggi nei suoi racconti, come se le loro immagini si fossero stampate come fotogrammi fissi nel suo cervello.

E poi c’era il deserto, il caldo, l’arsura.

 Conservo foto anche di quel periodo: in una era in gruppo, con una dozzina di compagni, immortalati in un ospedale da campo, alcuni pieni di fasciature ma tutti con un bicchiere in alto a brindare agli eventi del momento ed a ciò che sarebbe stato una volta ritornati in Italia.

  Federico, un amico e compagno di quei giorni era l’unico interlocutore con cui riusciva a discutere, a parlare del futuro senza farsi condizionare da un presente non certo roseo. Entrambi avevano una visione nel complesso ottimistica, entrambi amavano una donna che avrebbero voluto come compagna di vita, con cui procreare, per avere figli e nipoti a cui raccontare quelle avventure. Alfredo ne avrebbe avuto occasione, Federico no, perchè il caso, o il destino, non guarda in faccia a nessuno e decide da solo, indipendentemente dalle aspettative e dalle speranze.

Intanto era arrivato il giorno fatidico.

Si partiva, si tornava a casa, l’entusiasmo era alle stelle, le ferite neanche bruciavano più, si erano cicatrizzate all’istante. Nell’aeroporto militare partivano a ripetizione i velivoli che avrebbero ricondotto i soldati in Italia. L’organizzazione era approssimativa, non si contavano i posti disponibili, gli aerei venivano riempiti finchè restava spazio. Era un fuggi fuggi, un arrembaggio, ma tutti erano felici. La guerra era agli sgoccioli.

Poi ci sarebbe stato il “dopo” pieno di progetti ma anche di incognite.

Un dopo che sarebbe stato lungo e faticoso. Alfredo avrebbe ripreso gli studi di geometra , si sarebbe diplomato e lo avrebbero assunto in un’azienda dove sarebbe rimasto fino alla pensione. Avrebbe sposato, dopo un po’ di anni la sua Maria e avuto una figlia.

-Alfredo fai presto, sbrigati, l’aereo è quasi pieno!

 Urlava Federico in quella mattina assolata.

  Alfredo nel fervore delle ultime cose si era attardato. Aveva una serie di bagagli, cimeli, ricordi, tra cui un grande tappeto che avrebbe campeggiato per anni e anni come arazzo sul muro del salotto di sua madre Modesta, monili che le donne del luogo gli regalavano in cambio di cibo. Molti regali per Maria, come di ritorno da una vacanza. Ma lui era così e quei giorni terribili e drammatici li avrebbe ricordati per la vita intera e non solo in negativo.

 Aveva conosciuto realtà che ignorava, realtà dolorose, terribili e aveva cercato nel suo piccolo di portare aiuto a qualcuno che ne avesse bisogno.

Così quella mattina attardandosi perse l’aereo e potè salutare l’amico Federico solo da lontano, ripromettendosi di andarlo a trovare, nel paesino in provincia di Avellino dove abitava, e di cui aveva conservato con cura l’indirizzo.

Salì sull’aereo successivo e arrivò a destinazione, nella sua Napoli.

Quell’aereo partito poco prima del suo cadde, fu abbattuto dalla contraerea tedesca e morirono tutti i passeggeri.

Giorni dopo ci andò lo stesso nel paesino di Federico, a salutare la madre e a portarle le condoglianze. Si trattenne a raccontare le loro vicende, storie di guerra e di amicizia. Piansero entrambi.

Una storia come tante, che Alfredo raccontò tantissime volte, ogni volta in modo diverso, con qualche particolare in più che gli riaffiorava alla mente, qualche volta sorridendo, più spesso con una nota di commozione sul volto e nella voce.

.....

Alfredo era mio padre. E se quel giorno non avesse ritardato e perso l’aereo io non sarei qui. Non ci sarei neache se su quella camionetta avessero sparato ai soldati della fila opposta. Non ci sarebbero i miei figli, nè mio nipote. Non so dove nè cosa sarei, dove sarebbero i miei atomi, la mia coscienza. Forse per l’economia generale dell’universo non sarebbe cambiato nulla, per me e per le persone che mi sono care, sarebbe cambiato tutto.

Sono domande che mi faccio spesso ma non trovo risposta , perchè non c’è risposta: la cosa mi inquieta, non poco.

Nella vita abbiamo tante possibilità di scegliere per decidere il nostro destino, alcune volte facciamo scelte palesemente sbagliate, altre scegliamo senza neanche rendercene conto.

 Mio padre non scelse, fu il destino a scegliere per lui, e per me. Quel che è certo è che, se le cose fossero andate diversamente, non avrei avuto una seconda occasione per venire al mondo.

© Silvana Maroni





IL PRIMO NATALE

 “È una festa ipocrita”

“Il Natale?”

“Certo, tutto questo volemosebeneatuttiicosti non ha senso se per il resto dell'anno...”

“Dai, non cominciare con questa solfa, lo sai che serve, è utile…”

“Serve?”

“Ma sì, per i bambini soprattutto, loro sentono l'affetto, il calore, l’aggregazione. La religione c'entra poco.”

“Su questo sarei d'accordo, ma solo sull'ultimo punto. Chiama i bambini, dai usciamo, c'è la festa del Presepe vivente in Chiesa. Andiamo, ma solo per loro, sia chiaro.”

...

  Era la sua missione più importante, sarebbe diventato un vero eroe, venerato da tutti. Ricordò gli immensi sacrifici che l'avevano portato fin là, a sbarcare da un aereo in quella terra nemica, straniera, che gli avevano insegnato ad odiare più d'ogni altra cosa al mondo, travestito lui stesso da straniero.

 Il mondo gli scivolava intorno in mille fotogrammi sconnessi, mescolati ai ricordi di un'infanzia negata. Era un film privo di nessi logici, fatto di immagini slegate, contraddittorie, quasi sempre violente, mostruose. Un orrore necessario, lodevole, che avrebbe conseguito il giusto premio.

  Come per suo padre, che ora abitava lassù, nel Paradiso degli eletti. Anche lui era sulla strada della gloria eterna. Aveva ucciso il primo uomo a soli otto anni: un nemico, un cane infedele che non meritava di vivere. Ne ricordava il rantolo, il fiume di sangue che gli usciva dalle vene, gli occhi vitrei. Alla morte ci si abitua, alla fine non fa più effetto.

  Era stato un “Cucciolo del Califfato”, solerte, sempre ligio ai doveri, alla filosofia improntata all’odio e alla morte che gli era stata inculcata, e ora si trovava proprio nel cuore di quel mondo straniero, luccicante e colorato, falso e ingannatore come il peccato. Un mondo da distruggere, sgretolare, ridurre in polvere.

Era lì per questo, continuava a ripeterselo.

  Ma quando entrò nell'immenso edificio sormontato da una cupola preziosa, dipinta e intarsiata di meraviglie, fu investito da una marea di emozioni contrastanti, contraddittorie, confuse.

L'odio che gli avevano instillato negli anni, goccia a goccia, stentava a venire fuori, mentre si faceva largo lo stupore, un’onda di palpiti irrefrenabili  provocatagli da tutta quella bellezza. I colori sfumati, i suoni, gli effetti di luce attraverso le altissime vetrate ricamavano nell’aria una sensazione paradisiaca, tutt'altro dal grigio piombo delle armi e dei carri armati a cui era ormai assuefatto, come se non esistesse altro al mondo oltre al non-colore degli strumenti di morte.

  Quella gioia che lo circondava gli era sconosciuta, così come l'entusiasmo, la dolcezza, la magia di una festa misteriosa. Se fosse pure stata eretica e blasfema poco importava. Le risate e i sorrisi risuonavano nello spazio smisurato dell'antico luogo di culto. Gli si stava schiudendo un universo fatto di gente dal sorriso aperto, di volti scoperti e solari di donne giovani e anziane, belle nella gentilezza e nell'imperfezione.

Belle come la pace, come la vita.

Belle come ricordava bello il volto di sua madre, le rare volte che lo aveva visto per intero, confuso in una pioggia di lacrime e ricordi sfocati.

“I maschi non piangono mai.” Si disse quando la vide morire.

Non pianse mai più, ma ora il groppo che sentiva nella gola presagiva un diluvio.

Fu allora che gli passò davanti, lucido, tutto quel passato che risuonava di orrore e disperazione:  i compagni saltati in aria, spietate bombe umane seminatrici di morte, le esecuzioni, le teste insanguinate degli infedeli che rotolavano come palloni da calciare via, il fragore dei proiettili, lo sguardo doloroso delle donne della sua famiglia, inguainate in prigioni nere di stoffa. Tutte con gli stessi occhi tristi, rassegnati, spenti.

   Lo avevano istruito per bene, un lavaggio del cervello iniziato da piccolo con armi vere al posto dei giocattoli. La mira perfetta, esercitata per anni, il senso del pericolo costantemente presente. Era così da un'eternità: sottratto alla famiglia a soli cinque anni, da quando il padre era saltato in aria portando cento anime con sé ed era stato assunto alla gloria degli eroi di cartapesta.

Mai frequentato una scuola vera, amorevole, inclusiva. Solo letture di testi sacri, debitamente epurati di ogni messaggio di pace e amore. Anche l'aritmetica era tutta un sommare e moltiplicare di armi e pallottole. Calcoli per stabilire quanti nemici si potevano uccidere.

E poi botte, torture per chi provava pietà ed esitava a sparare, anche se  per un attimo.  Come quando aveva visto degli occhi che imploravano pietà e si era intenerito.

 No. Non ce n'era per nessuno, nè pietà nè misericordia.

 Ancora portava addosso i segni indelebili delle punizioni per quei tentennamenti.

Educato all'odio per l'occidente blasfemo e corrotto, a soli quindici anni era pronto a tutto. Cotto a puntino, i pensieri di morte avevano travalicato e seppellito tutti i sogni di adolescente, anzi, quelli neanche avevano avuto modo di nascere.

Ma adesso...i cori, le luci, il vociare sommesso e allegro. L'aria di festa si toccava, si respirava, scivolava fra le dita prendendo corpo in quel luogo incantato.

  Era entrato nell'antico edificio travestito da Babbo Natale, pronto a lanciare l'urlo fatidico, proprio nell'istante in cui si alzava il coro degli angioletti. Aveva provato tante volte, si era esercitato ed era tale lo stato di esaltazione che fino ad un attimo prima gli sembrava di non veder l'ora gridare al cielo quell'invocazione di morte.

La grossa pancia rossa era imbottita di tritolo. Ma non aveva fatto i conti con quella mescolanza di emozioni, quel senso di bontà e di comunione che si respirava, con la gioia e lo stupore dei bambini e degli anziani che subito lo circondarono, con l'aria lieve e colorata di quel giorno di festa.

  Non resse a quel muto bombardamento di emozioni, scappò via lontano : si trasformò in una scheggia impazzita scomparendo tra la folla delle strade vestite a festa, in un baleno. In uno spiazzo isolato gettò via il pancione rosso ripieno di morte, che esplose confondendosi col rumore coloratissimo dei fuochi d'artificio: non avrebbe fatto del male a nessuno, non più.

Scappò via pur sapendo che  i “suoi” lo avrebbero cercato e punito. Nel peggiore dei modi. Ma sapeva correre e nascondersi. Gliel'avevano insegnato proprio loro. Trovò un coraggio nuovo per liberarsi da antiche catene.  

Esisteva un altro mondo, lo aveva appena scoperto.

La gente in Chiesa non capì nulla. “Il solito pazzo”, era l'ipotesi più accreditata che circolava.

“Stavolta almeno c’è un imprevisto!” Disse qualcuno.

“Siamo alle solite, queste feste inutili e chiassose attirano solo ladri e mendicanti!”

“Sarà stato un clandestino, ha visto troppa gente ed è fuggito”

Invece stavolta il Natale era davvero “servito”, andando ben oltre l'ipocrisia e il romanticismo di facciata. Oltre la religione.

Quel ragazzino pazzo per la prima volta si era sentito libero, e gli era bastato un attimo per decidere che era disposto a tutto pur di restarvi.

Fu il primo Natale della sua vera vita.

© Silvana Maroni



PASQUALE ESPOSITO, BARMAN

   Eccomi qua, in un treno diretto a Sud. Destinato ad un percorso inverso rispetto ai miei genitori che trent’anni fa migrarono al Nord, dove sono nato io, 19 anni fa. In provincia di Trento, fra le montagne più belle del mondo.

  Ora sono diretto al mare più bello del mondo, ma ancora non sono convinto. Napoli è una città caotica, sporca,  la gente urla sempre, sono preoccupato. In questi giorni ci sono anche tante scosse di terremoto, non mi sento sicuro, è una terra instabile, capricciosa.

   A dire il vero tifo Napoli come il mio papà, quindi un legame con la città ce l’ho. Lui mi parla sempre di Maradona. Ora è diventato una specie di dio, ma forse lo è sempre stato, a vederlo giocare.

L’anno scorso per lo scudetto hanno festeggiato per sei mesi, certo, sarà stato bello.

   Zio Tonino mi ha rassicurato, Napoli è migliorata, è piena di turisti, molto più pulita, dice che mi troverò bene. Speriamo.

Devo fare la gavetta, così mi dicono tutti. Quando sarò diventato davvero bravo, allora potrò anche andare a Las Vegas dove i barman guadagnano anche mille euro a serata. Mille euro!

  E’ stato buono zio Tonino, mi ha aiutato; con questo diploma dell’istituto alberghiero cos’altro avrei potuto fare? E’ vero che sono bravo, ho avuto sempre buoni voti, ma non ho mai lavorato. Una cosa è preparare cocktails a scuola per finta, una cosa è aver a che fare con le persone.

Solo che, ora sono proprio le persone che mi preoccupano. Qua parlano sempre, vogliono chiacchierare di continuo.

 E poi c’è un’altra cosa: il caffè.

Il fatto è che a Napoli il caffè è una specie di dio, come Maradona. C’è un rituale preciso per prepararlo, a casa e al bar, e ne prendono di continuo. Chissà quanti ne dovrò fare! Certo, imparerò!

Prendono il caffè per parlare, per litigare, per fare pace, per passare il tempo. Sarà per questo che urlano tanto e gesticolano, la caffeina li rende nervosi.

Devo imparare bene tutti i passaggi per prepararlo e servirlo. Devo ricordarmi sempre di tutto, stare attento.

Il bicchiere d’acqua insieme al caffè, innanzitutto, che è pure gratuita, sempre. Dice zio Tonino che l’acqua è come l’aria e non si può far pagare per respirare. Certo, è giusto.

E poi quella storia della coda di zoccola, mannaggia a me e a lui! Lui dice che il caffè deve uscire dalla macchinetta del bar prima a gocce e poi in un filo sottile, proprio come la coda di un topo, la zoccola appunto. E per non più di trenta secondi.

Sono agitato, a scuola queste cose non ce le dicevano.

E ci sta pure un’altra  storia, quella del “sospeso”. Si deve sempre annotare, se qualcuno offre un caffè a chi non ha i soldi e viene dopo. Questa però è una bella cosa, è come dimostrare amicizia per tutti, anche per gli sconosciuti. Ma pure bisogna ricordarsela!

Sono arrivato!

NAPOLI - PIAZZA GARIBALDI

Eccomi qua, comincia l’avventura. Vedo zio Tonino che mi aspetta, meno male! Ci sta pure zia Concettina, sono affettuosi, e mio cugino Salvatore che pure lavora nel bar. Tutta la famiglia!

   -“Ciao, bello guagliò, comme staj? Vedrai che ti troverai bene qua. Hai fatto buon viaggio? Hai mangiato?”

      -“Ciao zio, ciao zia, sì è tutto a posto!”

     -“Jamm bellu guagliò, (Andiamo bel ragazzo) ti ambienterai presto, non ti preoccupare, hai sangue partenopeo nelle vene! Ma prima di tutto andiamoci a prendere un bel caffè, al bar della stazione, poi ti spiego tutto.

Sediamoci al tavolino, sarai stanco, e poi il caffè si prende con calma, senza fretta.”

Stiamo attenti a seguire le regole, sempre.”

     -“Le regole si, zio, le ripasserò”

     -“Il bicchier d’acqua, da bere prima del caffè, mai dopo, per pulirsi la bocca e assaporare meglio il gusto.

Poi assicurarsi che il caffè abbia le tre C,  le conosci Pasqualì?”

      -“No zio,”

      -“Ci sono due scuole di pensiero: quella più seria che ti dice : Caldo, comodo e carico, perchè il caffè vero deve essere ristretto, solo se te lo chiedono lo fai lungo!

E l’altra è in dialetto e dice: Comme cazz coce (come cavolo scotta!) perchè il caffè deve essere bollente!

Ah, dimenticavo, per il barista la regola più importante è: deve scendere a coda di zoccola! “

      -“Sì questa la sapevo”

      -“Siamo pronti?”

      -“Sì zio, ( più o meno)”

Pasqualino tra sè:

-“Mamma mia, non è che il caffè mi farà agitare ancora di più?

Però, che profumo, e devo dire che è davvero buono!”

© Silvana Maroni

 


giovedì 23 maggio 2024

VESUVIO

 VESUVIO

M’inerpico sulle pendici glabre

striate di muschio e macchiate di ginestra.

Mi accoglie la roccia nera,liscia, lunare,

ancora ardente di pura bellezza.

Seguo la curva che si staglia sull’azzurro,

con forme diverse, dagli angoli del golfo,

sul ciglio del baratro inciampo nel passato.

Qui popoli combattevano col fuoco,

scommettevano sui venti

si rifugiavano in mare

per sfuggire alla furia feconda dello sterminatore.

Oggi meta incantevole

cela velate minacce

che accrescono la magia

dei luoghi antichi intagliati nel tufo,

del terreno fertile, di piante che spaccano la lava.

Degna cornice per chi da sempre combatte

e vive sul ciglio dell’ignoto.

Dove tutto può accadere,

dove la vita scorre giorno su giorno

e il futuro si mescola all’azzurro:

incerto, mutevole,

 come mare e cielo

a primavera.

© Silvana Maroni





 

lunedì 13 maggio 2024

A SCUOLA

 -Bambini, commentiamo la storia di Ulisse?

(Mi aspetto le solite domande: dove, chi, quando, perchè. Speriamo che Adele partecipi, è sempre taciturna)

-Cosa vi ha colpito? Avete domande?

-Prof,  il viaggio, le disavventure mi sono parse un po’ esagerate, non arrivava mai! Mio padre col motoscafo...

-Paolo, non esistevano i motori, si viaggiava a vela e a remi, e poi è volutamente esagerato, per mostrare le difficoltà della vita, che si superano grazie alla volontà e all’intelligenza...

(Figuriamoci se questo non tirava in ballo il padre e le sue ricchezze...)

A me ha colpito il racconto delle sirene, dicono che abitavano dove vado al mare in estate...

-Sì certo Adriana, è un mito.

(Uffa non mi fa mai parlare!)

-E a te Adele, cosa ha colpito?

(Vediamo se riesco a tirarle fuori qualcosa)

Adele alzò gli occhioni blu, sempre tristi e dopo un po’, sorprendentemente, rispose:

-I mostri maestra, tutti quei mostri, esistevano davvero?

(Sì che esistevano e pure oggi, io zio Salvatore lo vedo peggio di Polifemo, mi fa paura)

-I mostri rappresentano le difficoltà, vengono identificati con fenomeni naturali, con luoghi dove il mare era sempre agitato, o soffiavano venti impetuosi.

(Meno male che partecipa)

-Sì? Quindi non esistevano?

(Non è vero, oggi i mostri ci sono, quando vedo lo zio arrivare nel furgoncino bianco ho paura, mi guarda con occhi strani, mi dice cose che mi fanno vergognare).

Suona la campanella.

-Ripassate la lezione bambini, continuiamo domani.

Fuori scuola un furgoncino bianco.

Adele:

-Maestra, le posso dire una cosa?

© Silvana Maroni


venerdì 10 maggio 2024

UNA DOMENICA IN MUSICA

 -Era proprio il caso di portare la nonna?

-Perchè? era così contenta!

-Contenta? Ma se non si muove mai di casa, sempre a guardare vecchi film!

-Meglio, si distrae. E poi era come se avesse una specie di appuntamento, qualcosa d’importante da fare.

-Vaneggiava, insomma.

-No, guarda com’è carina, con i pantaloni a zampa e la camicetta a fiori.

-Si è sdraiata sul prato! Si alzerà tutta  acciaccata e ci toccherà rimetterla in sesto!

-Cosa dovrà fare?

-Aspetta la musica.

- Musica?

-Ha detto che aspetta la musica da cinquant’anni, anzi cinquantacinque.

-Vorrà sentire quel gruppetto di ragazzini che strimpellano con le chitarre! Eccoli!

...

-Nonna è tardi andiamo, sta facendo buio!

-Ve ne volete andare sul più bello? Non è ancora arrivato!

-Arrivato? Ma chi?

-Lui, Jimi, aspetto quando farà vibrare alle stelle le corde della chitarra con l’inno americano! Se no che ci siamo venuti a fare a Woodstock?

© Silvana Maroni



FOTOGRAFIE

 Attimi cristallizzati,

 intrappolati nell'ambra

come insetti del paleozoico.

Attimi passati, frullati nel tempo

ritornano a rinverdire memorie liete.

Eppure,

Ogni ricordo ne richiama altri, in una catena 

infinita di anelli compenetrati,

inscindibili.

Le persone sono figure sbiadite

sulla carta lucida

seppia, bianco e nero, affastellate nella memoria 

che confonde tempo, spazio, luoghi.

Non tutti  i ricordi sono lieti,

vita e morte ballano abbracciate,

perchè va così, nel fluire degli anni.

Nel fiume del tempo cosmico

Prossimo all'eternitá,

ci affacciamo solo un attimo

in questa vita

e lasciamo impronte leggere

sulla sabbia, che il mare cancella.

Solo alcune

sedimentano nella memoria e

s'imprimono

come calchi di fossili

nelle rocce.


© Silvana Maroni




mercoledì 8 maggio 2024

TERRASANTA

Gemiti sordi

Di un sole in agonia

che non scalda più tale è il freddo nel cuore,

Dove lo spazio non traduce pensieri

Dove i muri gemono, invocando la pace

Dove le vite umane

valgono meno di un soldo bucato,

Dove tutto è muto

Anche il dolore

Più della rabbia.

S.M.



martedì 7 maggio 2024

RISVEGLIO

 Katherine  non era del tutto sveglia, il suo corpo non rispondeva ai comandi del cervello che aveva ripreso, invece, a funzionare. Era rigida e sentiva letteralmente un fluido vitale scorrere giù per le vene, appena tiepido ma corroborante. Sapeva che per un po’ di tempo non sarebbe stata del tutto cosciente, così le avevano spiegato. La sfiorò il pensiero di un guasto improvviso all’astronave ma non volle pensarci, si sarebbe agitata. Come aveva appreso durante il lungo addestramento, fece degli esercizi di rilassamento ripercorrendo con la memoria le tappe della sua vita, fino a quella incredibile missione nello spazio.

   Con diligenza, da brava e scrupolosa scolaretta, iniziò lentamente a ricordare i trascorsi che l'avevano portata a credere nell’impresa di un gruppo di sognatori disperati, proprio come lei. Si rivide bambina in un centro d'accoglienza governativo, probabilmente ceduta da genitori poveri, imbarazzanti o corruttibili. O forse sognatori e disperati, anche loro, come aveva sempre preferito pensare.

   Eppure qualche flebile ricordo era rimasto nelle pieghe della sua corteccia: l’immagine di una donna bella e sorridente, dagli occhi scuri e i seni importanti. Una piccola casa lungo un fiume, uomini in divisa che sfilavano, armati fino ai denti. Era un puzzle incompiuto, a cui i suoi neuroni aggiungevano gradualmente elementi. In quel momento si accorse di averne di nuovi. Sorprendentemente, dopo quel lunghissimo riposo forzato altre memorie si erano stratificate nella sua mente. Ricordò per la prima volta lunghe mani ingioiellate, una montagna di banconote chiuse in una valigia nascosta sotto un vecchio letto in una casa di campagna. E ricordò il colore degli alberi, delle cascate, dei prati fioriti. Ma certamente non erano reali, Tutte queste cose non esistevano più da secoli sulla Terra e pensò che fossero il frutto della sua fervidissima immaginazione.

    Ebbe anche la sensazione di essere osservata, ma fu solo un attimo.

    La campagna era in realtà la periferia degradata di una metropoli tentacolare nei cui meandri accadeva di tutto, compresa la compravendita di esseri umani.

    Da bambina scriveva storie, su quaderni raccattati in un vecchio magazzino, con matite colorate  che temperava con un coltellino in dotazione al suo equipaggiamento. Storie fantastiche, vagheggiate, perse nella memoria e fuse con i sogni. In una di queste storie aveva una mamma e un papà e vivevano in una caverna nascosti dal mondo: era una vita avventurosa immersa in una natura viva e violenta, certamente anch’essa immaginaria. Le città infatti, erano sovrastate da cupole e agonizzavano, destinate ad una fine certa a causa della mancanza di  risorse: acqua potabile, cibo, combustibili e perfino l'ossigeno scarseggiavano.

   E poi all’esterno c'erano mille pericoli, orde di mutanti infestavano il mondo: erano esseri mostruosi che si cibavano di carne umana e devastavano ogni prodotto della civiltà; dotati di un’intelligenza superiore miravano alla conquista della Terra e soprattutto di altri mondi, visto che il pianeta dell’uomo era ormai ben poco vivibile. Diabolici e spietati, si temeva che si fossero infiltrati anche tra la popolazione delle cupole.

   Kathe sapeva che lo scopo della missione era la ricerca di  nuovi pianeti, veri eden dello spazio, future culle della specie umana. E loro erano gli eletti, i colonizzatori: scelti attraverso selezioni durissime, dal cervello ricondizionato e propenso solo al bene, da cui, come le era stato spiegato, erano state cancellate le orrende memorie che li riconducevano al loro mondo perduto.

   Sapeva che era una missione senza ritorno, affidata a qualche migliaio di umani addestrati sin dalla nascita. Tutti privi di affetti, di famiglia, di ricordi: le migliori pedine da giocare in quel viaggio senza ritorno, senza speranze, con pochissime prospettive di riuscita. Il sistema di comunicazioni con il pianeta di origine era affidato agli sviluppi di una teoria recentissima, sulla

“Persistenza della scia di luce attraverso il vuoto”, ben poco comprovata e abbastanza aleatoria. Ma era il presupposto teorico per la trasmissione e la ricezione dei dati: basata sul fatto che le onde elettromagnetiche creano un fronte che perturba lo spazio permettendo alle oscillazioni di giungere a destinazione prima della radiazione stessa, in buona parte funzionò.  

   Così l'equipaggio poteva comunicare i risultati della spedizione in tempi molto più brevi di quelli previsti dalla relatività, approfittando di scorciatoie cosmiche ben note e attraversabili anche dalla materia, quindi utili per il viaggio.

   Kathe, avvolta nella capsula protettiva, sentiva la pelle che si staccava a brandelli, una sorta di metamorfosi investiva il suo corpo: l'acqua scivolava via e con essa il bozzolo in cui era avvolta. Un involucro di fibre vegetali, una sorta di nido, costruito con tecniche raffinate, biotecnologiche.

Ricordava il mare, ma era un ricordo sfocato, sommesso, non era certa di averlo mai visto davvero.

Echi di voci indistinte, doloranti, fluivano veloci verso il percorso forzato di una memoria preconfezionata, ma che conteneva un pulviscolo sporco di verità. Le  sofferenze di una bambina alle prese con un mondo più grande di lei, dove la bugia e la verità si confondevano nel quotidiano, assolutamente indistinguibili.

  “Guarda negli occhi il mondo, dici sempre quello che pensi, rispetta le opinioni degli altri e combatti con tutte le tue forze chi non lo fa”.
  “Rispetta tutte le creature del pianeta, ama il pianeta, ama la natura per come è, senza regole anche se a volte appare crudele.” Una voce metallica ripeteva nella sua testa questi moniti.
“La natura non ha un piano prestabilito, solo gli uomini lo hanno; la natura vive di impulsi, sussulti, gemiti, ed  è lei la padrona. Come una madre ci ha accolti, ma può distruggerci con una spinta, con un soffio, con le sue lacrime confuse nella pioggia. Noi viviamo solo un attimo, nel tempo cosmico siamo meno di un battito di ciglia. Riempiamolo di vita questo piccolo momento che ci è toccato, e respiriamo questa vita fino in fondo, non lasciamo che ci scivoli addosso, presto rotolerà via comunque e le nostre tracce si dissolveranno nel vento di un nuovo autunno.”

  Erano parole scolpite nei neuroni del suo cervello, moniti, consigli, ma non riusciva ad associarli a nessuno, non umano almeno.

  Intanto la vista si schiariva, e sagome indistinte cominciavano a prendere corpo intorno a lei. Ectoplasmi che lentamente divenivano presenze reali, dai contorni definiti, di cui Kathe cominciava ad avvertire i respiri, i singhiozzi, le voci indistinte, gli odori. Ebbe una sensazione negativa, si sentì soffocare e per la prima volta provò paura, una paura irrazionale che presto si tramutò in terrore puro. Quando le sagome che intravedeva cominciarono a prendere corpo e i suoni furono distinguibili.

   Molti degli altri astronauti erano passati direttamente dal sonno profondissimo dell'ibernazione alla morte e giacevano nei loro loculi semiaperti da cui emanava un effluvio nauseabondo di carne putrefatta. Ma non tutti. C’era anche chi, risvegliandosi, si rendeva improvvisamente conto di ciò che accadeva e delle sue conseguenze.

   I recettori del suo nervo olfattivo non erano ancora del tutto attivi e neanche i coni e i bastoncelli della retina. La sua coscienza era assopita, avvolta dall'involucro ovattato dei ricordi.  Di lì a breve si sarebbe resa conto del destino che attendeva lei e i suoi compagni di viaggio, superstiti di quel “folle volo” della conoscenza e dell'arroganza umana.

   Mentre i sensi assopiti le si risvegliavano lentamente, Kathe riceveva lievi zaffate maleodoranti di carne putrefatta, fruscii di gemiti di dolore e singhiozzi provocati da conati di vomito, ma era immobilizzata nella sua capsula e non comprendeva a fondo l’orrore che la circondava. Perché per le poche decine di esseri risvegliatisi prima di lei da quel torpore paralizzante, l’unica via di sopravvivenza, l’unica risorsa per placare i morsi della fame era contenuta nei corpi ancora in vita dei compagni. Sarebbe stato così anche per lei.

   La realtà si presentò come un pugno nello stomaco. Nessuna poesia, nessun messaggio di conquista, di speranza o di amore. Ora le sfuggiva il senso profondo di ogni cosa, e soprattutto di quel folle viaggio.

   Quando Kate finalmente spalancò gli occhi sul vuoto, improvvisamente le ombre indistinte che era riuscita a scorgere presero forma: non era un bello spettacolo. C'era un tappeto di cadaveri, alcuni già decomposti e l'odore era nauseante. Ma la cosa peggiore era l’avanzare di quei corpi vivi e pallidi, miracolosamente resuscitati e famelici verso il suo loculo. Capì tutto in solo istante, e qualcosa scattò nella sua mente, un istinto da predatore implacabile, accuratamente nascosto nel suo DNA e perfettamente innestato nei falsi pensieri buoni che l’avevano accompagnata fino a quel momento: così raccolse le forze riposte in tanti anni di sonno forzato e una scossa violenta fece sussultare il suo corpo che si scagliò con indicibile violenza contro i malfermi assalitori.

   Il collegamento con la Terra era attivo, in audio e video, c’era solo un insignificante sfasamento temporale.

   Dal pianeta madre assisterono ad una battaglia tra esseri che non avevano più nulla di umano, che si strapparono a vicenda brandelli di carne viva, in una primordiale e atavica lotta per la sopravvivenza. Le immagini si chiusero, come nei peggiori “splatter” con un primissimo piano sul volto trasfigurato della donna: gli occhi fuori delle orbite, la bocca insanguinata e deformata in un ghigno sinistro.

  Dalla base terra echeggiò un coro di voci soddisfatte e concordi: “Missione compiuta!”

Erano LORO.

 L’ingente investimento economico in corpi da riprogrammare allo scopo di diffondere negli spazi quella  specie degenerata, cominciava a dare i suoi frutti e si avviava alla completa realizzazione. Avrebbero occupato altri pianeti e, forse, la galassia intera.

© Silvana Maroni

 


IL GATTO

 -        Pronto polizia? Mi chiamo Camilla Anselmi, abito in via delle Pagode 33, venite , vi prego, al più presto. Credo sia accaduto qualcosa di molto brutto alla mia vicina, la signorina Carli, Antonia Carli, fate presto per favore.

-        Ci spieghi signora e si calmi, arriviamo ma dobbiamo sapere di cosa si tratta, c'é un referto da compilare.

-        Ecco,  Antonia non mi risponde, la stavo chiamando perché come al solito il suo gatto mi è entrato in casa. E poi ho visto che il gatto ha le zampe insanguinate! Vi prego fate presto!

    Il cadavere di Antonia Carli era riverso sul pavimento del soggiorno, in una pozza di sangue. Era stata accoltellata, l’assassino l’aveva assalita alle spalle recidendole con un colpo solo la giugulare. La poveretta non aveva avuto neanche il tempo di urlare.

   L'ispettore Roversi, giunto sul luogo con i RIS  e numerosi agenti iniziò a guardarsi intorno, ascoltando le testimonianze dei condomini, portiere in testa: Giacomo detto Mino, che era da poco subentrato al padre ammalato, e, nonostante la giovane età, come tutti i portieri che si rispettino conosceva vita morte e miracoli della signorina Antonia, quarantaduenne  piacente ma non simpaticissima. Amica-rivale di Camilla, Antonia aveva anche un fidanzato: lo stesso che Camilla aveva lasciato alcuni mesi prima perché possessivo e violento. Paolo Giugno il suo nome, di bell’aspetto, ricco e senza un alibi per la serata precedente. Anzi, certamente coinvolto perché le telecamere di sorveglianza della filiale della Banca Della Finanza in via delle Pagode, lo avevano perfettamente inquadrato alle 23,00 mentre usciva dallo stabile.

  Il medico legale aveva indicato tra le 22,45 e le 24 l’ora presunta del delitto. Questi erano i fatti e su queste basi Roversi non poté fare a meno di arrestare il Giugno, dopo un breve e concitato interrogatorio in cui l’uomo si proclamò innocente ed affermò di aver lasciato la fidanzata viva e vegeta, anche se avevano avuto un breve alterco: i due avrebbero discusso e anche alzato la voce, ma nulla di più.  

  L’uomo, dal carattere fumantino, aveva sferrato due pugni sul tavolo ed era stato portato via ammanettato, mentre urlava il suo amore per Antonia e la sua innocenza.

  Il caso era semplice, Roversi si rilassò davanti ad un caffè amaro come piaceva a lui, soddisfatto dell’andamento delle indagini.

  Ma nella sua mente ancora vagava qualche ombra.

  In realtà c’erano dei punti da chiarire: l’arma del delitto non era stata ritrovata e bisognava attendere l’esame delle numerose impronte rinvenute sulla scena del crimine, peraltro contaminata dal passaggio ripetuto del gatto Amilcare, inseparabile compagno di Antonia.

  Nonostante l’apparente semplicità del caso e in attesa degli esami del RIS, Roversi, che amava la precisione e non tollerava dubbi o zone d’ombra nelle sue indagini, decise di recarsi di nuovo in   via delle Pagode ad ascoltare in maniera più approfondita gli altri condomini, che a caldo gli avevano tutti confermato la stessa versione: nessun rumore rilevante, urla o similari, solo una discussione a voce sostenuta tra Antonia e il fidanzato, poco prima delle 23.

   Così avevano affermato il ragionier De Bellis, la Signora Massa, l’avvocato Santelli, l’ingegner Ponzi e sua moglie. Soltanto la signora Mercedes Somma, del quarto piano, giurava di aver visto Antonia sul terrazzo innaffiare i fiori dopo le 23,00, ma aveva 88 anni e la sua testimonianza inizialmente non venne ritenuta affidabile. Si ritenne che potesse averla confusa con Camilla, proprietaria del terrazzo adiacente.

   Roversi tornò ad interrogarla.

-          Vede Ispettore, io porto fuori il cane sempre alla stessa ora. Dalla strada il terrazzo di Antonia al primo piano è  perfettamente visibile, e anche quello di Camilla, ma le due donne sono diverse, la povera Antonia era bionda. Bene, erano le 23,15 e Antonia innaffiava i fiori, ne sono certa!

L’anziana donna appariva lucidissima e Roversi ne trovò anche le prove: sul tavolino del salotto della donna erano ben impilati tutti i numeri di una famosa rivista enigmistica, con tutti i quesiti, anche i più difficili, perfettamente risolti.

-          Sa, io vivo sola, i miei soli passatempi sono l’enigmistica e la cucina. Vuole assaggiare i miei dolcetti alla crema? Ho il colesterolo che mi fa penare, non posso eccedere!

   Roversi non si tirò indietro e l’assaggio di quelle delizie, abbinato alle capacità risolutive in campo enigmistico, non fece altro che confermare la sua impressione sull’anziana donna.

  Passò poi da Camilla, che trovò molto più calma della sera precedente. Mino gli aveva riferito che i rapporti tra le due donne non erano proprio idilliaci; a parte le vicende amorose, Camilla mal sopportava la presenza ingombrante di Amilcare, che spesso sconfinava nel suo terrazzo scavando nelle piante e sporcando ovunque.

-          Antonia è stata una pazza a cedere alle lusinghe di quel farabutto, ha fatto come con me, il copione è lo stesso! L’ha irretita con regali, fiori, bigliettini affettuosi…Sa com’è, non siamo più ragazzine e certe cose ci fanno effetto! Sono stata costretta a lasciarlo per le sue continue scenate di gelosia, non ero libera di uscire, di vestirmi come mi pareva…Un incubo!

 Roversi ascoltò pensieroso l’accorata testimonianza di Camilla che smarrì rapidamente la calma iniziale: passava da parole sussurrate ad un tono stridulo, come in preda ad uno stato confusionale, ad una vera e propria crisi isterica.

   Mino aveva raccontato che le scenate di gelosia erano per lo più di Camilla e che la storia fra Paolo ed Antonia era cominciata già prima della fine del fidanzamento con l’altra. L’ispettore si trovò per un attimo spiazzato, la confusione delle testimonianze contrastanti non lo faceva stare tranquillo, per questo decise di passare al contrattacco affrontando di petto Camilla.

-          Signorina Anselmi, mi vuol dire con sincerità quali fossero i suoi rapporti con la Signorina Carli? C’era dell’acredine tra voi?  Era ancora innamorata del Giugno? Quella sera li aveva sentiti? Avevano davvero litigato? Dal suo appartamento le parole si distinguono bene. Si calmi e cerchi di essere sincera, la sua testimonianza può essere fondamentale.

La donna si voltò come una furia e rispose urlando:

-          Senta Ispettore, se  mi vuole accusare di omicidio lo faccia pure, io la odiavo, avrei voluto vederla morta già da tanto tempo, ha distrutto la mia vita, mi ha rubato l’amore, la odiavo e la odio ancora, pure da morta! Vuol sapere se li ho sentiti? Ma certo, hanno litigato, ma poi si sono rappacificati, poco dopo ho  sentito ben altro: gemiti, sospiri. Non c’è alcun dubbio su cosa facessero, e io come una cretina, sto ancora a rimpiangere l’amore di quel farabutto e l’amicizia di quella p…

   La donna si fermò di botto, e non a causa delle lacrime che le rigavano copiose le guance, ma perché vide entrare in casa, come accadeva spesso, il gatto Amilcare, in giro per le sue solite scorribande. Senza pensarci un solo attimo, gli lanciò una statuina di bronzo che, non cogliendolo, fracassò un quadro mandando in frantumi il vetro. Odiava quell’animale, era invadente, se lo trovava tra i piedi in qualunque momento.

  Roversi cercò di calmare la donna, le asciugò le lacrime ma non poté fare a meno, prima di accomiatarsi, di rivolgerle un’ultima domanda.

-          Mi scusi, ma non posso fare a meno di chiederglielo, la rappacificazione, quella di cui lei parlava, mi saprebbe dire a che ora approssimativamente sarebbe avvenuta? I gemiti e i sospiri per intenderci…

-          In quel momento a tutto pensavo tranne che a guardare l’orologio ma erano appena terminate le previsioni del tempo sul terzo canale, le ascolto sempre e tenevo la TV accesa. Erano le 23,30, ne sono certa!

   Roversi, che fino a qualche ora prima credeva di aver risolto il caso, tornò in ufficio abbastanza confuso e qui diede lettura al referto dei RIS dal quale apprese le caratteristiche dell’arma del delitto, un coltello da cucina, probabilmente quello mancante nella casa della vittima, in tal caso  facilmente riconoscibile dal manico color glicine, come gli altri ancora infilati in bella mostra in un ceppo colorato accanto al piano cottura.

   Il referto aggiungeva un altro particolare, che Roversi però già conosceva: Antonia quella sera aveva avuto un rapporto sessuale, consenziente. Mancava però qualsiasi traccia di liquido seminale, quindi niente esame del DNA. Le numerose impronte erano di Antonia,  Paolo,  Camilla, ma molte altre erano sconosciute e difficilmente identificabili.

   L’Ispettore era punto e a capo, confermata la testimonianza della signora Somma, avrebbe dovuto scarcerare subito il Giugno, senza temporeggiare. Ricomponendo il puzzle era evidente che Antonia aveva un amante e lo aveva ricevuto in casa. Era costui l’assassino, e probabilmente abitava nello stesso stabile, perché nessuno era stato inquadrato dalle telecamere della banca mentre ne usciva, quella notte. Il piccolo condominio non aveva seconde uscite.

  Roversi intanto formulava ipotesi, chi poteva essere stato? Il timido ragioniere? L’avvocato rampante e facoltoso? L’ingegnere sembrava troppo anziano, ma aveva una moglie insopportabile…Mino?

   Giunto al 33 di via delle Pagode, Roversi era deciso ad uscire con una piena confessione, chiunque fosse stato il colpevole non avrebbe avuto riguardi.

   Fu più facile del previsto: voleva cominciare da Mino ma l’uomo non era al suo posto e dalla guardiola  provenivano strani rumori. Dovette forzare la serratura che l’uomo teneva sempre chiusa: una raccomandazione di suo padre! Qui trovò Amilcare che con le zampette aveva sollevato due mattonelle del pavimento ed ora era lì a leccare concitatamente un coltello venuto fuori da quel nascondiglio: aveva il manico color glicine.

  Mino non ci provò neanche a smentire: era innamorato della donna, che non aveva alcuna intenzione di lasciare il ricco fidanzato per lui. Era stato un raptus.

Roversi era finalmente soddisfatto, il caso stavolta era davvero risolto! Mentre sbrigava le ultime formalità ebbe l’impressione che il gatto Amilcare lo guardasse con una certa soddisfazione, mentre continuava a leccarsi il pelo sdraiato sul pavimento dell’androne.

 © Silvana Maroni




 

 

martedì 30 aprile 2024

ISTINTO

    In quel luogo remoto, la natura selvaggia accompagnava i fremiti degli amanti, stemperava i gemiti, accarezzava i corpi; tutto l'universo cospirava a favore dell'amore e della bellezza.

La giornata era stata torrida e la natura intera aveva cooperato per predisporre la scenografia di un incontro magico.

 La vita, in tutte le sue innumerevoli forme, in quella landa assolata aveva tessuto la trama degli eventi di quel magico pomeriggio...

 

   Lei avanzava svelta, noncurante del suo fascino: il mondo si schiudeva di fronte al suo passo, all'incedere flessuoso delle anche, al guizzare dei muscoli delineati sotto la carne. Il tramonto arroventato sulla pianura illuminava il suo corpo perfetto che baluginava strusciando contro l'erba alta della prateria. Sembrava ignorare tutto intorno a sè e procedeva sicura nel suo cammino, forte dell'incontenibile energia che la guidava e dell'aura profumata che lasciava come una scia sul solco dei suoi passi: precisi, perfetti, silenziosi come una danza.

 

Il tramonto allestiva lo spettacolo di una pianura rovente, rossa di ruggine mentre Venere, la gemella celeste di lei, iniziava ad affacciarsi su in cielo rischiarandone il cammino regale.

   Era un'armonia di gesti, una musica divina: il mondo sembrava gravitare intorno a quel corpo perfetto, ai gesti potenti ma ricchi di grazia, alla bellezza assoluta e alla fierezza del suo sguardo.

 

   Lui l'attendeva per un incontro che avrebbe lasciato un segno indelebile nel mondo e nei loro corpi. Era su una collina e ammirava l'incedere di quella creatura che procedeva nella sua direzione, quasi che il loro amore fosse già deciso nelle alte sfere del destino di entrambi. Erano fatti l'uno per l'altra e il profumo che il vento trasportava fino alle sue narici glielo confermava. L'avrebbe attesa e fatta sua, al più presto, senza esitazioni né ripensamenti, senza che nessuno avesse potuto interferire in quel richiamo divino, in quella sinfonia di corpi infiammati dal desiderio.

 

    Un uccellino cantò una melodia dall'alto di un ramo e il fruscìo del vento sulla pianura ne fu l'accompagnamento in musica.

    Le alte erbe si aprivano, l'aria tremante respirava il calore trasudato dalla terra schiacciata dai passi di lei, i fiori sbocciati si ritiravano dalla corolla, per timore e vergogna, non volevano soccombere a quell'incontro, all'energia incontenibile dei corpi dei due amanti.

 

   Così fu, loro si erano già riconosciuti a distanza e nessuno dei due ebbe alcuna esitazione.

 

    I ruggiti del leone e della leonessa risuonarono alti, espandendo la loro eco in tutta la sterminata savana, di cui le due bellissime fiere si proclamarono re e regina incontrastati.

 

© Silvana Maroni

 


GIOVE E VENERE

 Incontro di astri che splendono

nella luce incerta del crepuscolo
e si tuffano nel buio
tenendosi per mano.
Notte dopo notte
si rincorrono
si raggiungono fino a stringersi in un fugace abbraccio.
Poi fuggono di nuovo
ognuno lungo un'orbita straniera
che non appartiene all'altro,
ognuno solitario nel suo incedere nel cosmo
passo su passo
luce su luce.
Ognuno libero e lontano
da chiunque altro.
Ognuno sicuro lungo una strada
segnata dal filo invisibile della gravità.
Solo noi quaggiù li vediamo incontrarsi
e poi fuggire via
come due innamorati, presi in un gioco perverso,
eterno, ricorrente,
eppure inesistente.
Un amore che li vedrà lasciarsi e ricongiungersi
baciarsi e abbandonarsi
per poi ritrovarsi dopo anni, secoli , millenni
negli occhi offuscati di chi li osserva
per sempre uniti.
Si sa,
solo gli amori impossibili
sanno sfidare l'eternità.
S.M.

Foto marzo 2023 - Congiunzione Giove-Venere

domenica 28 aprile 2024

ASTRI

 

L'universo sussurra e grida


storie di stelle e pianeti.


Di nebulose scolpite da polveri d'oro, d'ametista, di cupo zaffiro,


di viaggi lungo solchi invisibili incisi dal tempo,


scalpello del cosmo.


Di mondi spariti in un battito d'ali.


Di mostri voraci di luce


affamati di fotoni impazziti


che vorticano inghiottiti da forze tenaci


e lasciano posto al buio più profondo.


Di montagne di gas che, nel vuoto,


creano coreografie luminose


piegate dalla gravità,


che vince su tutto.


Mille occhi di fuoco,


che dico mille, milioni, miliardi


miliardi di miliardi.


Occhi forse oggi spenti


segnano il passo del viandante astrale


e giungono, inesistenti, dopo il lungo viaggio,


a brillare quaggiù


in una vuota lusinga d'immortalitá.


S. M.

© Silvana Maroni