mercoledì 4 dicembre 2024

ALFREDO

 La storia che mi accingo a raccontare non è propriamente autobiografica anche se mi riguarda intimamente e per il famoso “effetto farfalla” riguarda tante persone che mi circondano. Ai protagonisti non è stata data l’opportunità di scegliere o di ritornare sulle proprie scelte, di stabilire cosa fosse giusto o ingiusto. In questo caso parlerei di caso o destino, qualcosa di ineluttabile da cui dipende la vita di ognuno di noi.

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  Si chiamava Alfredo ed era napoletano verace, anche se nato in provincia di Salerno, in un paesino al confine con l’Irpinia, secondo di tre fratelli. Abitava a Napoli da sempre, in uno dei vicoli che dalla zona del centro si arrampicano verso il corso Vittorio Emanuele. Una zona di confine, in una città dove i confini sono sempre stati ovunque.

  Di lui oggi conservo tante foto in bianco e nero, una lettera, alcuni cimeli. Tra le fotografie, contenute in una vecchia scatola di latta, ce n’è una che lo ritrae da bambino nel cortile della scuola De Amicis , all’interno di una scolaresca variegata in cui si distingueva, senza grembiulino, per il suo sguardo da adulto, di sfida ma anche tenero e dolce. Probabilmente era stato uno scugnizzo, uno dei tanti. Un ragazzino che viveva in strada giocando a pallone e facendo a botte.

Il maestro nella foto ha uno sguardo un po’ truce, freddo, anche per gli occhi molto chiari, ma pareva non fargli alcuna paura. Eppure era molto severo e soleva educare i bambini a suon di bacchettate.

   In un’altra foto infantile era in villa comunale con il fratelli: Vittorio, di poco più grande e Angelo, in un passeggino, piccoletto, dai riccioli biondi.

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  Era una delle solite giornate torride in Libia. Calore, sabbia e polvere da sparo: un miscuglio che gli ottundeva i polmoni da giorni. Insieme alla paura, che era diventata una compagna inseparabile da mesi ormai. Ne aveva viste di tutte, orrori derubricati a normalità, a stato delle cose.

  Era nel mezzo di una guerra, e come tale orribile, sporca, ingiusta e cattiva. Alfredo lo sapeva bene, non aveva granchè studiato ma il cervello lo sapeva far funzionare. Molto bene. Per questo, il suo innato senso pratico concluse che era importante sopravvivere, poi il peggio sarebbe passato e avrebbe realizzato tutti i suoi propositi.

  Era un bel ragazzo, tutti gli dicevano che somigliasse ad un famoso divo di Hollywood, Glenn Ford; le donne non gli mancavano ma lui ne aveva una soltanto nel cuore: la sua Maria, a cui scriveva lettere d’amore ovunque si trovasse in quegli anni disgraziati che suo malgrado lo avevano portato a girare il mondo. Povertà, solitudine, paure, venivano tutte cancellate dal ricordo di due occhi nerissimi, delle labbra rosse e i capelli corvini di una ragazza semplice, nata a  Mergellina, oltre quel mare che ora percepiva come nemico, come barriera che gli bloccava sogni e desideri.

  Quel giorno si parlava di grandi novità: lo sbarco degli alleati, l’8 settembre, la rivolta della sua Napoli;  la confusione era davvero tanta. Gli alleati diventavano nemici e quelli che erano dall’altra parte, nemici giurati fino al giorno prima, improvvisamente alleati. Ma le notizie erano confuse. Alfredo capì soltanto che sarebbe tornato presto a casa e la cosa lo rendeva euforico. Ripensò ai pericoli scampati, a quante volte era stato sul punto di perdere le speranze. Ora pareva che davvero qualcosa si stesse smuovendo.

  Non gli erano mai stati simpatici i vecchi alleati, i tedeschi,  ed anche per gli inglesi non nutriva una spiccata simpatia. Lo intenerivano le vittime, gli abitanti di quelle terre oltre il mare ricchissime di risorse, che gli uni e gli altri si proponevano di spremere all’osso. Così sarebbe stato Alfredo, per tutta la vita: sempre dalla parte dei più deboli, sempre a difendere chi vedeva calpestati i diritti elementari. La guerra lo prendeva di striscio, non odiava nessuno e cercava di usare le armi il meno possibile.

 Si beccò un paio di pallottole comunque e lo ricoverarono per qualche mese, sottraendolo a più cruente esperienze che lo avrebbero privato di alcuni commilitoni, amici più che altro.

  Fu ferito mentre trasportavano viveri su una camionetta attraverso il deserto. Fu un agguato che falciò letteralmente una fila di soldati seduti da un lato e che fecero scudo, coi loro corpi, alla fila di fronte dove sedeva Alfredo. Un puro caso. Se li vide morire addosso quei compagni e tante volte negli anni raccontò di quell’esperienza, che arricchiva ogni volta di dettagli, particolari, descrizioni minuziose. Tra i caduti Aldo,un barbiere di Bergamo, fissato con il biliardo e Salvatore di Roma, accanito scommetitore di cavalli. Li faceva rivivere quei personaggi nei suoi racconti, come se le loro immagini si fossero stampate come fotogrammi fissi nel suo cervello.

E poi c’era il deserto, il caldo, l’arsura.

 Conservo foto anche di quel periodo: in una era in gruppo, con una dozzina di compagni, immortalati in un ospedale da campo, alcuni pieni di fasciature ma tutti con un bicchiere in alto a brindare agli eventi del momento ed a ciò che sarebbe stato una volta ritornati in Italia.

  Federico, un amico e compagno di quei giorni era l’unico interlocutore con cui riusciva a discutere, a parlare del futuro senza farsi condizionare da un presente non certo roseo. Entrambi avevano una visione nel complesso ottimistica, entrambi amavano una donna che avrebbero voluto come compagna di vita, con cui procreare, per avere figli e nipoti a cui raccontare quelle avventure. Alfredo ne avrebbe avuto occasione, Federico no, perchè il caso, o il destino, non guarda in faccia a nessuno e decide da solo, indipendentemente dalle aspettative e dalle speranze.

Intanto era arrivato il giorno fatidico.

Si partiva, si tornava a casa, l’entusiasmo era alle stelle, le ferite neanche bruciavano più, si erano cicatrizzate all’istante. Nell’aeroporto militare partivano a ripetizione i velivoli che avrebbero ricondotto i soldati in Italia. L’organizzazione era approssimativa, non si contavano i posti disponibili, gli aerei venivano riempiti finchè restava spazio. Era un fuggi fuggi, un arrembaggio, ma tutti erano felici. La guerra era agli sgoccioli.

Poi ci sarebbe stato il “dopo” pieno di progetti ma anche di incognite.

Un dopo che sarebbe stato lungo e faticoso. Alfredo avrebbe ripreso gli studi di geometra , si sarebbe diplomato e lo avrebbero assunto in un’azienda dove sarebbe rimasto fino alla pensione. Avrebbe sposato, dopo un po’ di anni la sua Maria e avuto una figlia.

-Alfredo fai presto, sbrigati, l’aereo è quasi pieno!

 Urlava Federico in quella mattina assolata.

  Alfredo nel fervore delle ultime cose si era attardato. Aveva una serie di bagagli, cimeli, ricordi, tra cui un grande tappeto che avrebbe campeggiato per anni e anni come arazzo sul muro del salotto di sua madre Modesta, monili che le donne del luogo gli regalavano in cambio di cibo. Molti regali per Maria, come di ritorno da una vacanza. Ma lui era così e quei giorni terribili e drammatici li avrebbe ricordati per la vita intera e non solo in negativo.

 Aveva conosciuto realtà che ignorava, realtà dolorose, terribili e aveva cercato nel suo piccolo di portare aiuto a qualcuno che ne avesse bisogno.

Così quella mattina attardandosi perse l’aereo e potè salutare l’amico Federico solo da lontano, ripromettendosi di andarlo a trovare, nel paesino in provincia di Avellino dove abitava, e di cui aveva conservato con cura l’indirizzo.

Salì sull’aereo successivo e arrivò a destinazione, nella sua Napoli.

Quell’aereo partito poco prima del suo cadde, fu abbattuto dalla contraerea tedesca e morirono tutti i passeggeri.

Giorni dopo ci andò lo stesso nel paesino di Federico, a salutare la madre e a portarle le condoglianze. Si trattenne a raccontare le loro vicende, storie di guerra e di amicizia. Piansero entrambi.

Una storia come tante, che Alfredo raccontò tantissime volte, ogni volta in modo diverso, con qualche particolare in più che gli riaffiorava alla mente, qualche volta sorridendo, più spesso con una nota di commozione sul volto e nella voce.

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Alfredo era mio padre. E se quel giorno non avesse ritardato e perso l’aereo io non sarei qui. Non ci sarei neache se su quella camionetta avessero sparato ai soldati della fila opposta. Non ci sarebbero i miei figli, nè mio nipote. Non so dove nè cosa sarei, dove sarebbero i miei atomi, la mia coscienza. Forse per l’economia generale dell’universo non sarebbe cambiato nulla, per me e per le persone che mi sono care, sarebbe cambiato tutto.

Sono domande che mi faccio spesso ma non trovo risposta , perchè non c’è risposta: la cosa mi inquieta, non poco.

Nella vita abbiamo tante possibilità di scegliere per decidere il nostro destino, alcune volte facciamo scelte palesemente sbagliate, altre scegliamo senza neanche rendercene conto.

 Mio padre non scelse, fu il destino a scegliere per lui, e per me. Quel che è certo è che, se le cose fossero andate diversamente, non avrei avuto una seconda occasione per venire al mondo.

© Silvana Maroni





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