Katherine non era del tutto sveglia, il suo corpo non rispondeva ai comandi del cervello che aveva ripreso, invece, a funzionare. Era rigida e sentiva letteralmente un fluido vitale scorrere giù per le vene, appena tiepido ma corroborante. Sapeva che per un po’ di tempo non sarebbe stata del tutto cosciente, così le avevano spiegato. La sfiorò il pensiero di un guasto improvviso all’astronave ma non volle pensarci, si sarebbe agitata. Come aveva appreso durante il lungo addestramento, fece degli esercizi di rilassamento ripercorrendo con la memoria le tappe della sua vita, fino a quella incredibile missione nello spazio.
Con diligenza, da brava e scrupolosa scolaretta, iniziò lentamente a
ricordare i trascorsi che l'avevano portata a credere nell’impresa di un gruppo
di sognatori disperati, proprio come lei. Si rivide bambina in un centro
d'accoglienza governativo, probabilmente ceduta da genitori poveri,
imbarazzanti o corruttibili. O forse sognatori e disperati, anche loro, come
aveva sempre preferito pensare.
Eppure qualche flebile ricordo era rimasto nelle pieghe della sua
corteccia: l’immagine di una donna bella e sorridente, dagli occhi scuri e i
seni importanti. Una piccola casa lungo un fiume, uomini in divisa che
sfilavano, armati fino ai denti. Era un puzzle incompiuto, a cui i suoi neuroni
aggiungevano gradualmente elementi. In quel momento si accorse di averne di
nuovi. Sorprendentemente, dopo quel lunghissimo riposo forzato altre memorie si
erano stratificate nella sua mente. Ricordò per la prima volta lunghe mani
ingioiellate, una montagna di banconote chiuse in una valigia nascosta sotto un
vecchio letto in una casa di campagna. E ricordò il colore degli alberi, delle
cascate, dei prati fioriti. Ma certamente non erano reali, Tutte queste cose
non esistevano più da secoli sulla Terra e pensò che fossero il frutto della
sua fervidissima immaginazione.
Ebbe
anche la sensazione di essere osservata, ma fu solo un attimo.
La campagna era in realtà la periferia degradata di una metropoli
tentacolare nei cui meandri accadeva di tutto, compresa la compravendita di
esseri umani.
Da bambina scriveva storie, su quaderni
raccattati in un vecchio magazzino, con matite colorate che temperava con un coltellino in dotazione
al suo equipaggiamento. Storie fantastiche, vagheggiate, perse nella memoria e
fuse con i sogni. In una di queste storie aveva una mamma e un papà e vivevano
in una caverna nascosti dal mondo: era una vita avventurosa immersa in una
natura viva e violenta, certamente anch’essa immaginaria. Le città infatti, erano
sovrastate da cupole e agonizzavano, destinate ad una fine certa a causa della
mancanza di risorse: acqua potabile,
cibo, combustibili e perfino l'ossigeno scarseggiavano.
E poi all’esterno c'erano mille pericoli, orde di mutanti infestavano il
mondo: erano esseri mostruosi che si cibavano di carne umana e devastavano ogni
prodotto della civiltà; dotati di un’intelligenza superiore miravano alla
conquista della Terra e soprattutto di altri mondi, visto che il pianeta
dell’uomo era ormai ben poco vivibile. Diabolici e spietati, si temeva che si
fossero infiltrati anche tra la popolazione delle cupole.
Kathe
sapeva che lo scopo della missione era la ricerca di nuovi pianeti, veri eden dello spazio, future
culle della specie umana. E loro erano gli eletti, i colonizzatori: scelti
attraverso selezioni durissime, dal cervello ricondizionato e propenso solo al
bene, da cui, come le era stato spiegato, erano state cancellate le orrende
memorie che li riconducevano al loro mondo perduto.
Sapeva che era una missione senza ritorno, affidata a qualche migliaio
di umani addestrati sin dalla nascita. Tutti privi di affetti, di famiglia, di
ricordi: le migliori pedine da giocare in quel viaggio senza ritorno, senza
speranze, con pochissime prospettive di riuscita. Il sistema di comunicazioni
con il pianeta di origine era affidato agli sviluppi di una teoria
recentissima, sulla
“Persistenza
della scia di luce attraverso il vuoto”, ben poco comprovata e abbastanza
aleatoria. Ma era il presupposto teorico per la trasmissione e la ricezione dei
dati: basata sul fatto che le onde elettromagnetiche creano un fronte che
perturba lo spazio permettendo alle oscillazioni di giungere a destinazione
prima della radiazione stessa, in buona parte funzionò.
Così l'equipaggio poteva comunicare i risultati della spedizione in
tempi molto più brevi di quelli previsti dalla relatività, approfittando di
scorciatoie cosmiche ben note e attraversabili anche dalla materia, quindi
utili per il viaggio.
Kathe, avvolta nella capsula protettiva, sentiva la pelle che si
staccava a brandelli, una sorta di metamorfosi investiva il suo corpo: l'acqua
scivolava via e con essa il bozzolo in cui era avvolta. Un involucro di fibre
vegetali, una sorta di nido, costruito con tecniche raffinate, biotecnologiche.
Ricordava il mare, ma era un
ricordo sfocato, sommesso, non era certa di averlo mai visto davvero.
Echi di voci indistinte, doloranti,
fluivano veloci verso il percorso forzato di una memoria preconfezionata, ma
che conteneva un pulviscolo sporco di verità. Le sofferenze di una bambina alle prese con un
mondo più grande di lei, dove la bugia e la verità si confondevano nel
quotidiano, assolutamente indistinguibili.
“Guarda negli occhi il mondo, dici
sempre quello che pensi, rispetta le opinioni degli altri e combatti con tutte
le tue forze chi non lo fa”.
“Rispetta
tutte le creature del pianeta, ama il pianeta, ama la natura per come è, senza
regole anche se a volte appare crudele.” Una voce metallica ripeteva nella
sua testa questi moniti.
“La natura non ha un piano prestabilito,
solo gli uomini lo hanno; la natura vive di impulsi, sussulti, gemiti, ed è lei la padrona. Come una madre ci ha
accolti, ma può distruggerci con una spinta, con un soffio, con le sue lacrime
confuse nella pioggia. Noi viviamo solo un attimo, nel tempo cosmico siamo meno
di un battito di ciglia. Riempiamolo di vita questo piccolo momento che ci è
toccato, e respiriamo questa vita fino in fondo, non lasciamo che ci scivoli
addosso, presto rotolerà via comunque e le nostre tracce si dissolveranno nel
vento di un nuovo autunno.”
Erano parole scolpite nei neuroni del suo cervello, moniti, consigli, ma
non riusciva ad associarli a nessuno, non umano almeno.
Intanto
la vista si schiariva, e sagome indistinte cominciavano a prendere corpo
intorno a lei. Ectoplasmi che lentamente divenivano presenze reali, dai
contorni definiti, di cui Kathe cominciava ad avvertire i respiri, i
singhiozzi, le voci indistinte, gli odori. Ebbe una sensazione negativa, si
sentì soffocare e per la prima volta provò paura, una paura irrazionale che
presto si tramutò in terrore puro. Quando le sagome che intravedeva
cominciarono a prendere corpo e i suoni furono distinguibili.
Molti degli altri astronauti erano passati direttamente dal sonno
profondissimo dell'ibernazione alla morte e giacevano nei loro loculi
semiaperti da cui emanava un effluvio nauseabondo di carne putrefatta. Ma non
tutti. C’era anche chi, risvegliandosi, si rendeva improvvisamente conto di ciò
che accadeva e delle sue conseguenze.
I recettori del suo nervo olfattivo non erano ancora del tutto attivi e
neanche i coni e i bastoncelli della retina. La sua coscienza era assopita,
avvolta dall'involucro ovattato dei ricordi.
Di lì a breve si sarebbe resa conto del destino che attendeva lei e i
suoi compagni di viaggio, superstiti di quel “folle volo” della conoscenza e dell'arroganza umana.
Mentre i sensi assopiti le si risvegliavano lentamente, Kathe riceveva lievi
zaffate maleodoranti di carne putrefatta, fruscii di gemiti di dolore e
singhiozzi provocati da conati di vomito, ma era immobilizzata nella sua
capsula e non comprendeva a fondo l’orrore che la circondava. Perché per le
poche decine di esseri risvegliatisi prima di lei da quel torpore paralizzante,
l’unica via di sopravvivenza, l’unica risorsa per placare i morsi della fame
era contenuta nei corpi ancora in vita dei compagni. Sarebbe stato così anche
per lei.
La realtà si presentò come un pugno nello stomaco. Nessuna poesia,
nessun messaggio di conquista, di speranza o di amore. Ora le sfuggiva il senso
profondo di ogni cosa, e soprattutto di quel folle viaggio.
Quando Kate finalmente spalancò gli occhi sul vuoto, improvvisamente le
ombre indistinte che era riuscita a scorgere presero forma: non era un bello
spettacolo. C'era un tappeto di cadaveri, alcuni già decomposti e l'odore era
nauseante. Ma la cosa peggiore era l’avanzare di quei corpi vivi e pallidi,
miracolosamente resuscitati e famelici verso il suo loculo. Capì tutto in solo
istante, e qualcosa scattò nella sua mente, un istinto da predatore
implacabile, accuratamente nascosto nel suo DNA e perfettamente innestato nei
falsi pensieri buoni che l’avevano accompagnata fino a quel momento: così raccolse
le forze riposte in tanti anni di sonno forzato e una scossa violenta fece
sussultare il suo corpo che si scagliò con indicibile violenza contro i
malfermi assalitori.
Il collegamento con la Terra era attivo, in audio e video, c’era solo un
insignificante sfasamento temporale.
Dal
pianeta madre assisterono ad una battaglia tra esseri che non avevano più nulla
di umano, che si strapparono a vicenda brandelli di carne viva, in una
primordiale e atavica lotta per la sopravvivenza. Le immagini si chiusero, come
nei peggiori “splatter” con un
primissimo piano sul volto trasfigurato della donna: gli occhi fuori delle
orbite, la bocca insanguinata e deformata in un ghigno sinistro.
Dalla base terra echeggiò un coro di voci soddisfatte e concordi: “Missione compiuta!”
Erano LORO.
L’ingente investimento economico in corpi da riprogrammare allo scopo di diffondere negli spazi quella specie degenerata, cominciava a dare i suoi frutti e si avviava alla completa realizzazione. Avrebbero occupato altri pianeti e, forse, la galassia intera.
© Silvana
Maroni
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