lunedì 10 febbraio 2025

LA COSA PIU’ PREZIOSA

 Come al solito era in ritardo. Salì in macchina, trafelato, sbattendo la portiera, ascoltando a malapena la moglie che gli raccomandava qualcosa. Al suo fianco lo zaino, con tutta la vita dentro: pc, smartphone, agenda. Poggiato sul sedile, impossibile separarsene.

 Era una giornata di quelle toste, anzi tostissime sul lavoro. Ripassava nella mente tutti gli step fondamentali da seguire: c’era il lancio di una nuova campagna di prodotti. Roba all’avanguardia: avrebbero sbaragliato la concorrenza e lanciato sul mercato innovazioni senza precedenti, nuove apparecchiature informatiche, giochetti da far impallidire l’I.A.

Nel preziosissimo zaino griffato, di morbido cuoio, regalo del capo all’ultimo Natale, c’erano supporti informatici con l’iconografia completa delle nuove magìe. Ripeteva ancora in mente il discorso di presentazione: era pronto, era un Dio, lo aspettavano guadagni e carriera, non vedeva l’ora. Era gasatissimo.

Arrivò sgommando, parcheggiò con una manovra unica di cui si autocongratulò e si catapultò nel cortile con il preziosissimo carico: lo zaino portato fra le braccia, stretto sul cuore, come un vero tesoro. A passo svelto si avviava a salire, ma gli venne in mente un soffio, un sussurro, qualcosa che sua moglie gli aveva rammentato prima di uscire, a gran voce, ma che ora nel ricordo sembrava un bisbiglìo sommesso.

“La bambina al nido, entro le 9,00, mi raccomando!”

“LA BAMBINA?”

© Silvana Maroni




mercoledì 4 dicembre 2024

ALFREDO

 La storia che mi accingo a raccontare non è propriamente autobiografica anche se mi riguarda intimamente e per il famoso “effetto farfalla” riguarda tante persone che mi circondano. Ai protagonisti non è stata data l’opportunità di scegliere o di ritornare sulle proprie scelte, di stabilire cosa fosse giusto o ingiusto. In questo caso parlerei di caso o destino, qualcosa di ineluttabile da cui dipende la vita di ognuno di noi.

........

  Si chiamava Alfredo ed era napoletano verace, anche se nato in provincia di Salerno, in un paesino al confine con l’Irpinia, secondo di tre fratelli. Abitava a Napoli da sempre, in uno dei vicoli che dalla zona del centro si arrampicano verso il corso Vittorio Emanuele. Una zona di confine, in una città dove i confini sono sempre stati ovunque.

  Di lui oggi conservo tante foto in bianco e nero, una lettera, alcuni cimeli. Tra le fotografie, contenute in una vecchia scatola di latta, ce n’è una che lo ritrae da bambino nel cortile della scuola De Amicis , all’interno di una scolaresca variegata in cui si distingueva, senza grembiulino, per il suo sguardo da adulto, di sfida ma anche tenero e dolce. Probabilmente era stato uno scugnizzo, uno dei tanti. Un ragazzino che viveva in strada giocando a pallone e facendo a botte.

Il maestro nella foto ha uno sguardo un po’ truce, freddo, anche per gli occhi molto chiari, ma pareva non fargli alcuna paura. Eppure era molto severo e soleva educare i bambini a suon di bacchettate.

   In un’altra foto infantile era in villa comunale con il fratelli: Vittorio, di poco più grande e Angelo, in un passeggino, piccoletto, dai riccioli biondi.

....

  Era una delle solite giornate torride in Libia. Calore, sabbia e polvere da sparo: un miscuglio che gli ottundeva i polmoni da giorni. Insieme alla paura, che era diventata una compagna inseparabile da mesi ormai. Ne aveva viste di tutte, orrori derubricati a normalità, a stato delle cose.

  Era nel mezzo di una guerra, e come tale orribile, sporca, ingiusta e cattiva. Alfredo lo sapeva bene, non aveva granchè studiato ma il cervello lo sapeva far funzionare. Molto bene. Per questo, il suo innato senso pratico concluse che era importante sopravvivere, poi il peggio sarebbe passato e avrebbe realizzato tutti i suoi propositi.

  Era un bel ragazzo, tutti gli dicevano che somigliasse ad un famoso divo di Hollywood, Glenn Ford; le donne non gli mancavano ma lui ne aveva una soltanto nel cuore: la sua Maria, a cui scriveva lettere d’amore ovunque si trovasse in quegli anni disgraziati che suo malgrado lo avevano portato a girare il mondo. Povertà, solitudine, paure, venivano tutte cancellate dal ricordo di due occhi nerissimi, delle labbra rosse e i capelli corvini di una ragazza semplice, nata a  Mergellina, oltre quel mare che ora percepiva come nemico, come barriera che gli bloccava sogni e desideri.

  Quel giorno si parlava di grandi novità: lo sbarco degli alleati, l’8 settembre, la rivolta della sua Napoli;  la confusione era davvero tanta. Gli alleati diventavano nemici e quelli che erano dall’altra parte, nemici giurati fino al giorno prima, improvvisamente alleati. Ma le notizie erano confuse. Alfredo capì soltanto che sarebbe tornato presto a casa e la cosa lo rendeva euforico. Ripensò ai pericoli scampati, a quante volte era stato sul punto di perdere le speranze. Ora pareva che davvero qualcosa si stesse smuovendo.

  Non gli erano mai stati simpatici i vecchi alleati, i tedeschi,  ed anche per gli inglesi non nutriva una spiccata simpatia. Lo intenerivano le vittime, gli abitanti di quelle terre oltre il mare ricchissime di risorse, che gli uni e gli altri si proponevano di spremere all’osso. Così sarebbe stato Alfredo, per tutta la vita: sempre dalla parte dei più deboli, sempre a difendere chi vedeva calpestati i diritti elementari. La guerra lo prendeva di striscio, non odiava nessuno e cercava di usare le armi il meno possibile.

 Si beccò un paio di pallottole comunque e lo ricoverarono per qualche mese, sottraendolo a più cruente esperienze che lo avrebbero privato di alcuni commilitoni, amici più che altro.

  Fu ferito mentre trasportavano viveri su una camionetta attraverso il deserto. Fu un agguato che falciò letteralmente una fila di soldati seduti da un lato e che fecero scudo, coi loro corpi, alla fila di fronte dove sedeva Alfredo. Un puro caso. Se li vide morire addosso quei compagni e tante volte negli anni raccontò di quell’esperienza, che arricchiva ogni volta di dettagli, particolari, descrizioni minuziose. Tra i caduti Aldo,un barbiere di Bergamo, fissato con il biliardo e Salvatore di Roma, accanito scommetitore di cavalli. Li faceva rivivere quei personaggi nei suoi racconti, come se le loro immagini si fossero stampate come fotogrammi fissi nel suo cervello.

E poi c’era il deserto, il caldo, l’arsura.

 Conservo foto anche di quel periodo: in una era in gruppo, con una dozzina di compagni, immortalati in un ospedale da campo, alcuni pieni di fasciature ma tutti con un bicchiere in alto a brindare agli eventi del momento ed a ciò che sarebbe stato una volta ritornati in Italia.

  Federico, un amico e compagno di quei giorni era l’unico interlocutore con cui riusciva a discutere, a parlare del futuro senza farsi condizionare da un presente non certo roseo. Entrambi avevano una visione nel complesso ottimistica, entrambi amavano una donna che avrebbero voluto come compagna di vita, con cui procreare, per avere figli e nipoti a cui raccontare quelle avventure. Alfredo ne avrebbe avuto occasione, Federico no, perchè il caso, o il destino, non guarda in faccia a nessuno e decide da solo, indipendentemente dalle aspettative e dalle speranze.

Intanto era arrivato il giorno fatidico.

Si partiva, si tornava a casa, l’entusiasmo era alle stelle, le ferite neanche bruciavano più, si erano cicatrizzate all’istante. Nell’aeroporto militare partivano a ripetizione i velivoli che avrebbero ricondotto i soldati in Italia. L’organizzazione era approssimativa, non si contavano i posti disponibili, gli aerei venivano riempiti finchè restava spazio. Era un fuggi fuggi, un arrembaggio, ma tutti erano felici. La guerra era agli sgoccioli.

Poi ci sarebbe stato il “dopo” pieno di progetti ma anche di incognite.

Un dopo che sarebbe stato lungo e faticoso. Alfredo avrebbe ripreso gli studi di geometra , si sarebbe diplomato e lo avrebbero assunto in un’azienda dove sarebbe rimasto fino alla pensione. Avrebbe sposato, dopo un po’ di anni la sua Maria e avuto una figlia.

-Alfredo fai presto, sbrigati, l’aereo è quasi pieno!

 Urlava Federico in quella mattina assolata.

  Alfredo nel fervore delle ultime cose si era attardato. Aveva una serie di bagagli, cimeli, ricordi, tra cui un grande tappeto che avrebbe campeggiato per anni e anni come arazzo sul muro del salotto di sua madre Modesta, monili che le donne del luogo gli regalavano in cambio di cibo. Molti regali per Maria, come di ritorno da una vacanza. Ma lui era così e quei giorni terribili e drammatici li avrebbe ricordati per la vita intera e non solo in negativo.

 Aveva conosciuto realtà che ignorava, realtà dolorose, terribili e aveva cercato nel suo piccolo di portare aiuto a qualcuno che ne avesse bisogno.

Così quella mattina attardandosi perse l’aereo e potè salutare l’amico Federico solo da lontano, ripromettendosi di andarlo a trovare, nel paesino in provincia di Avellino dove abitava, e di cui aveva conservato con cura l’indirizzo.

Salì sull’aereo successivo e arrivò a destinazione, nella sua Napoli.

Quell’aereo partito poco prima del suo cadde, fu abbattuto dalla contraerea tedesca e morirono tutti i passeggeri.

Giorni dopo ci andò lo stesso nel paesino di Federico, a salutare la madre e a portarle le condoglianze. Si trattenne a raccontare le loro vicende, storie di guerra e di amicizia. Piansero entrambi.

Una storia come tante, che Alfredo raccontò tantissime volte, ogni volta in modo diverso, con qualche particolare in più che gli riaffiorava alla mente, qualche volta sorridendo, più spesso con una nota di commozione sul volto e nella voce.

.....

Alfredo era mio padre. E se quel giorno non avesse ritardato e perso l’aereo io non sarei qui. Non ci sarei neache se su quella camionetta avessero sparato ai soldati della fila opposta. Non ci sarebbero i miei figli, nè mio nipote. Non so dove nè cosa sarei, dove sarebbero i miei atomi, la mia coscienza. Forse per l’economia generale dell’universo non sarebbe cambiato nulla, per me e per le persone che mi sono care, sarebbe cambiato tutto.

Sono domande che mi faccio spesso ma non trovo risposta , perchè non c’è risposta: la cosa mi inquieta, non poco.

Nella vita abbiamo tante possibilità di scegliere per decidere il nostro destino, alcune volte facciamo scelte palesemente sbagliate, altre scegliamo senza neanche rendercene conto.

 Mio padre non scelse, fu il destino a scegliere per lui, e per me. Quel che è certo è che, se le cose fossero andate diversamente, non avrei avuto una seconda occasione per venire al mondo.

© Silvana Maroni





IL PRIMO NATALE

 “È una festa ipocrita”

“Il Natale?”

“Certo, tutto questo volemosebeneatuttiicosti non ha senso se per il resto dell'anno...”

“Dai, non cominciare con questa solfa, lo sai che serve, è utile…”

“Serve?”

“Ma sì, per i bambini soprattutto, loro sentono l'affetto, il calore, l’aggregazione. La religione c'entra poco.”

“Su questo sarei d'accordo, ma solo sull'ultimo punto. Chiama i bambini, dai usciamo, c'è la festa del Presepe vivente in Chiesa. Andiamo, ma solo per loro, sia chiaro.”

...

  Era la sua missione più importante, sarebbe diventato un vero eroe, venerato da tutti. Ricordò gli immensi sacrifici che l'avevano portato fin là, a sbarcare da un aereo in quella terra nemica, straniera, che gli avevano insegnato ad odiare più d'ogni altra cosa al mondo, travestito lui stesso da straniero.

 Il mondo gli scivolava intorno in mille fotogrammi sconnessi, mescolati ai ricordi di un'infanzia negata. Era un film privo di nessi logici, fatto di immagini slegate, contraddittorie, quasi sempre violente, mostruose. Un orrore necessario, lodevole, che avrebbe conseguito il giusto premio.

  Come per suo padre, che ora abitava lassù, nel Paradiso degli eletti. Anche lui era sulla strada della gloria eterna. Aveva ucciso il primo uomo a soli otto anni: un nemico, un cane infedele che non meritava di vivere. Ne ricordava il rantolo, il fiume di sangue che gli usciva dalle vene, gli occhi vitrei. Alla morte ci si abitua, alla fine non fa più effetto.

  Era stato un “Cucciolo del Califfato”, solerte, sempre ligio ai doveri, alla filosofia improntata all’odio e alla morte che gli era stata inculcata, e ora si trovava proprio nel cuore di quel mondo straniero, luccicante e colorato, falso e ingannatore come il peccato. Un mondo da distruggere, sgretolare, ridurre in polvere.

Era lì per questo, continuava a ripeterselo.

  Ma quando entrò nell'immenso edificio sormontato da una cupola preziosa, dipinta e intarsiata di meraviglie, fu investito da una marea di emozioni contrastanti, contraddittorie, confuse.

L'odio che gli avevano instillato negli anni, goccia a goccia, stentava a venire fuori, mentre si faceva largo lo stupore, un’onda di palpiti irrefrenabili  provocatagli da tutta quella bellezza. I colori sfumati, i suoni, gli effetti di luce attraverso le altissime vetrate ricamavano nell’aria una sensazione paradisiaca, tutt'altro dal grigio piombo delle armi e dei carri armati a cui era ormai assuefatto, come se non esistesse altro al mondo oltre al non-colore degli strumenti di morte.

  Quella gioia che lo circondava gli era sconosciuta, così come l'entusiasmo, la dolcezza, la magia di una festa misteriosa. Se fosse pure stata eretica e blasfema poco importava. Le risate e i sorrisi risuonavano nello spazio smisurato dell'antico luogo di culto. Gli si stava schiudendo un universo fatto di gente dal sorriso aperto, di volti scoperti e solari di donne giovani e anziane, belle nella gentilezza e nell'imperfezione.

Belle come la pace, come la vita.

Belle come ricordava bello il volto di sua madre, le rare volte che lo aveva visto per intero, confuso in una pioggia di lacrime e ricordi sfocati.

“I maschi non piangono mai.” Si disse quando la vide morire.

Non pianse mai più, ma ora il groppo che sentiva nella gola presagiva un diluvio.

Fu allora che gli passò davanti, lucido, tutto quel passato che risuonava di orrore e disperazione:  i compagni saltati in aria, spietate bombe umane seminatrici di morte, le esecuzioni, le teste insanguinate degli infedeli che rotolavano come palloni da calciare via, il fragore dei proiettili, lo sguardo doloroso delle donne della sua famiglia, inguainate in prigioni nere di stoffa. Tutte con gli stessi occhi tristi, rassegnati, spenti.

   Lo avevano istruito per bene, un lavaggio del cervello iniziato da piccolo con armi vere al posto dei giocattoli. La mira perfetta, esercitata per anni, il senso del pericolo costantemente presente. Era così da un'eternità: sottratto alla famiglia a soli cinque anni, da quando il padre era saltato in aria portando cento anime con sé ed era stato assunto alla gloria degli eroi di cartapesta.

Mai frequentato una scuola vera, amorevole, inclusiva. Solo letture di testi sacri, debitamente epurati di ogni messaggio di pace e amore. Anche l'aritmetica era tutta un sommare e moltiplicare di armi e pallottole. Calcoli per stabilire quanti nemici si potevano uccidere.

E poi botte, torture per chi provava pietà ed esitava a sparare, anche se  per un attimo.  Come quando aveva visto degli occhi che imploravano pietà e si era intenerito.

 No. Non ce n'era per nessuno, nè pietà nè misericordia.

 Ancora portava addosso i segni indelebili delle punizioni per quei tentennamenti.

Educato all'odio per l'occidente blasfemo e corrotto, a soli quindici anni era pronto a tutto. Cotto a puntino, i pensieri di morte avevano travalicato e seppellito tutti i sogni di adolescente, anzi, quelli neanche avevano avuto modo di nascere.

Ma adesso...i cori, le luci, il vociare sommesso e allegro. L'aria di festa si toccava, si respirava, scivolava fra le dita prendendo corpo in quel luogo incantato.

  Era entrato nell'antico edificio travestito da Babbo Natale, pronto a lanciare l'urlo fatidico, proprio nell'istante in cui si alzava il coro degli angioletti. Aveva provato tante volte, si era esercitato ed era tale lo stato di esaltazione che fino ad un attimo prima gli sembrava di non veder l'ora gridare al cielo quell'invocazione di morte.

La grossa pancia rossa era imbottita di tritolo. Ma non aveva fatto i conti con quella mescolanza di emozioni, quel senso di bontà e di comunione che si respirava, con la gioia e lo stupore dei bambini e degli anziani che subito lo circondarono, con l'aria lieve e colorata di quel giorno di festa.

  Non resse a quel muto bombardamento di emozioni, scappò via lontano : si trasformò in una scheggia impazzita scomparendo tra la folla delle strade vestite a festa, in un baleno. In uno spiazzo isolato gettò via il pancione rosso ripieno di morte, che esplose confondendosi col rumore coloratissimo dei fuochi d'artificio: non avrebbe fatto del male a nessuno, non più.

Scappò via pur sapendo che  i “suoi” lo avrebbero cercato e punito. Nel peggiore dei modi. Ma sapeva correre e nascondersi. Gliel'avevano insegnato proprio loro. Trovò un coraggio nuovo per liberarsi da antiche catene.  

Esisteva un altro mondo, lo aveva appena scoperto.

La gente in Chiesa non capì nulla. “Il solito pazzo”, era l'ipotesi più accreditata che circolava.

“Stavolta almeno c’è un imprevisto!” Disse qualcuno.

“Siamo alle solite, queste feste inutili e chiassose attirano solo ladri e mendicanti!”

“Sarà stato un clandestino, ha visto troppa gente ed è fuggito”

Invece stavolta il Natale era davvero “servito”, andando ben oltre l'ipocrisia e il romanticismo di facciata. Oltre la religione.

Quel ragazzino pazzo per la prima volta si era sentito libero, e gli era bastato un attimo per decidere che era disposto a tutto pur di restarvi.

Fu il primo Natale della sua vera vita.

© Silvana Maroni



PASQUALE ESPOSITO, BARMAN

   Eccomi qua, in un treno diretto a Sud. Destinato ad un percorso inverso rispetto ai miei genitori che trent’anni fa migrarono al Nord, dove sono nato io, 19 anni fa. In provincia di Trento, fra le montagne più belle del mondo.

  Ora sono diretto al mare più bello del mondo, ma ancora non sono convinto. Napoli è una città caotica, sporca,  la gente urla sempre, sono preoccupato. In questi giorni ci sono anche tante scosse di terremoto, non mi sento sicuro, è una terra instabile, capricciosa.

   A dire il vero tifo Napoli come il mio papà, quindi un legame con la città ce l’ho. Lui mi parla sempre di Maradona. Ora è diventato una specie di dio, ma forse lo è sempre stato, a vederlo giocare.

L’anno scorso per lo scudetto hanno festeggiato per sei mesi, certo, sarà stato bello.

   Zio Tonino mi ha rassicurato, Napoli è migliorata, è piena di turisti, molto più pulita, dice che mi troverò bene. Speriamo.

Devo fare la gavetta, così mi dicono tutti. Quando sarò diventato davvero bravo, allora potrò anche andare a Las Vegas dove i barman guadagnano anche mille euro a serata. Mille euro!

  E’ stato buono zio Tonino, mi ha aiutato; con questo diploma dell’istituto alberghiero cos’altro avrei potuto fare? E’ vero che sono bravo, ho avuto sempre buoni voti, ma non ho mai lavorato. Una cosa è preparare cocktails a scuola per finta, una cosa è aver a che fare con le persone.

Solo che, ora sono proprio le persone che mi preoccupano. Qua parlano sempre, vogliono chiacchierare di continuo.

 E poi c’è un’altra cosa: il caffè.

Il fatto è che a Napoli il caffè è una specie di dio, come Maradona. C’è un rituale preciso per prepararlo, a casa e al bar, e ne prendono di continuo. Chissà quanti ne dovrò fare! Certo, imparerò!

Prendono il caffè per parlare, per litigare, per fare pace, per passare il tempo. Sarà per questo che urlano tanto e gesticolano, la caffeina li rende nervosi.

Devo imparare bene tutti i passaggi per prepararlo e servirlo. Devo ricordarmi sempre di tutto, stare attento.

Il bicchiere d’acqua insieme al caffè, innanzitutto, che è pure gratuita, sempre. Dice zio Tonino che l’acqua è come l’aria e non si può far pagare per respirare. Certo, è giusto.

E poi quella storia della coda di zoccola, mannaggia a me e a lui! Lui dice che il caffè deve uscire dalla macchinetta del bar prima a gocce e poi in un filo sottile, proprio come la coda di un topo, la zoccola appunto. E per non più di trenta secondi.

Sono agitato, a scuola queste cose non ce le dicevano.

E ci sta pure un’altra  storia, quella del “sospeso”. Si deve sempre annotare, se qualcuno offre un caffè a chi non ha i soldi e viene dopo. Questa però è una bella cosa, è come dimostrare amicizia per tutti, anche per gli sconosciuti. Ma pure bisogna ricordarsela!

Sono arrivato!

NAPOLI - PIAZZA GARIBALDI

Eccomi qua, comincia l’avventura. Vedo zio Tonino che mi aspetta, meno male! Ci sta pure zia Concettina, sono affettuosi, e mio cugino Salvatore che pure lavora nel bar. Tutta la famiglia!

   -“Ciao, bello guagliò, comme staj? Vedrai che ti troverai bene qua. Hai fatto buon viaggio? Hai mangiato?”

      -“Ciao zio, ciao zia, sì è tutto a posto!”

     -“Jamm bellu guagliò, (Andiamo bel ragazzo) ti ambienterai presto, non ti preoccupare, hai sangue partenopeo nelle vene! Ma prima di tutto andiamoci a prendere un bel caffè, al bar della stazione, poi ti spiego tutto.

Sediamoci al tavolino, sarai stanco, e poi il caffè si prende con calma, senza fretta.”

Stiamo attenti a seguire le regole, sempre.”

     -“Le regole si, zio, le ripasserò”

     -“Il bicchier d’acqua, da bere prima del caffè, mai dopo, per pulirsi la bocca e assaporare meglio il gusto.

Poi assicurarsi che il caffè abbia le tre C,  le conosci Pasqualì?”

      -“No zio,”

      -“Ci sono due scuole di pensiero: quella più seria che ti dice : Caldo, comodo e carico, perchè il caffè vero deve essere ristretto, solo se te lo chiedono lo fai lungo!

E l’altra è in dialetto e dice: Comme cazz coce (come cavolo scotta!) perchè il caffè deve essere bollente!

Ah, dimenticavo, per il barista la regola più importante è: deve scendere a coda di zoccola! “

      -“Sì questa la sapevo”

      -“Siamo pronti?”

      -“Sì zio, ( più o meno)”

Pasqualino tra sè:

-“Mamma mia, non è che il caffè mi farà agitare ancora di più?

Però, che profumo, e devo dire che è davvero buono!”

© Silvana Maroni

 


giovedì 23 maggio 2024

VESUVIO

 VESUVIO

M’inerpico sulle pendici glabre

striate di muschio e macchiate di ginestra.

Mi accoglie la roccia nera,liscia, lunare,

ancora ardente di pura bellezza.

Seguo la curva che si staglia sull’azzurro,

con forme diverse, dagli angoli del golfo,

sul ciglio del baratro inciampo nel passato.

Qui popoli combattevano col fuoco,

scommettevano sui venti

si rifugiavano in mare

per sfuggire alla furia feconda dello sterminatore.

Oggi meta incantevole

cela velate minacce

che accrescono la magia

dei luoghi antichi intagliati nel tufo,

del terreno fertile, di piante che spaccano la lava.

Degna cornice per chi da sempre combatte

e vive sul ciglio dell’ignoto.

Dove tutto può accadere,

dove la vita scorre giorno su giorno

e il futuro si mescola all’azzurro:

incerto, mutevole,

 come mare e cielo

a primavera.

© Silvana Maroni





 

lunedì 13 maggio 2024

A SCUOLA

 -Bambini, commentiamo la storia di Ulisse?

(Mi aspetto le solite domande: dove, chi, quando, perchè. Speriamo che Adele partecipi, è sempre taciturna)

-Cosa vi ha colpito? Avete domande?

-Prof,  il viaggio, le disavventure mi sono parse un po’ esagerate, non arrivava mai! Mio padre col motoscafo...

-Paolo, non esistevano i motori, si viaggiava a vela e a remi, e poi è volutamente esagerato, per mostrare le difficoltà della vita, che si superano grazie alla volontà e all’intelligenza...

(Figuriamoci se questo non tirava in ballo il padre e le sue ricchezze...)

A me ha colpito il racconto delle sirene, dicono che abitavano dove vado al mare in estate...

-Sì certo Adriana, è un mito.

(Uffa non mi fa mai parlare!)

-E a te Adele, cosa ha colpito?

(Vediamo se riesco a tirarle fuori qualcosa)

Adele alzò gli occhioni blu, sempre tristi e dopo un po’, sorprendentemente, rispose:

-I mostri maestra, tutti quei mostri, esistevano davvero?

(Sì che esistevano e pure oggi, io zio Salvatore lo vedo peggio di Polifemo, mi fa paura)

-I mostri rappresentano le difficoltà, vengono identificati con fenomeni naturali, con luoghi dove il mare era sempre agitato, o soffiavano venti impetuosi.

(Meno male che partecipa)

-Sì? Quindi non esistevano?

(Non è vero, oggi i mostri ci sono, quando vedo lo zio arrivare nel furgoncino bianco ho paura, mi guarda con occhi strani, mi dice cose che mi fanno vergognare).

Suona la campanella.

-Ripassate la lezione bambini, continuiamo domani.

Fuori scuola un furgoncino bianco.

Adele:

-Maestra, le posso dire una cosa?

© Silvana Maroni


venerdì 10 maggio 2024

UNA DOMENICA IN MUSICA

 -Era proprio il caso di portare la nonna?

-Perchè? era così contenta!

-Contenta? Ma se non si muove mai di casa, sempre a guardare vecchi film!

-Meglio, si distrae. E poi era come se avesse una specie di appuntamento, qualcosa d’importante da fare.

-Vaneggiava, insomma.

-No, guarda com’è carina, con i pantaloni a zampa e la camicetta a fiori.

-Si è sdraiata sul prato! Si alzerà tutta  acciaccata e ci toccherà rimetterla in sesto!

-Cosa dovrà fare?

-Aspetta la musica.

- Musica?

-Ha detto che aspetta la musica da cinquant’anni, anzi cinquantacinque.

-Vorrà sentire quel gruppetto di ragazzini che strimpellano con le chitarre! Eccoli!

...

-Nonna è tardi andiamo, sta facendo buio!

-Ve ne volete andare sul più bello? Non è ancora arrivato!

-Arrivato? Ma chi?

-Lui, Jimi, aspetto quando farà vibrare alle stelle le corde della chitarra con l’inno americano! Se no che ci siamo venuti a fare a Woodstock?

© Silvana Maroni