La storia che mi
accingo a raccontare non è propriamente autobiografica anche se mi riguarda
intimamente e per il famoso “effetto farfalla” riguarda tante persone che mi
circondano. Ai protagonisti non è stata data l’opportunità di scegliere o di
ritornare sulle proprie scelte, di stabilire cosa fosse giusto o ingiusto. In
questo caso parlerei di caso o destino, qualcosa di ineluttabile da cui dipende
la vita di ognuno di noi.
........
Si chiamava Alfredo
ed era napoletano verace, anche se nato in provincia di Salerno, in un paesino al
confine con l’Irpinia, secondo di tre fratelli. Abitava a Napoli da sempre, in
uno dei vicoli che dalla zona del centro si arrampicano verso il corso Vittorio
Emanuele. Una zona di confine, in una città dove i confini sono sempre stati
ovunque.
Di lui oggi conservo
tante foto in bianco e nero, una lettera, alcuni cimeli. Tra le fotografie,
contenute in una vecchia scatola di latta, ce n’è una che lo ritrae da bambino
nel cortile della scuola De Amicis , all’interno di una scolaresca variegata in
cui si distingueva, senza grembiulino, per il suo sguardo da adulto, di sfida
ma anche tenero e dolce. Probabilmente era stato uno scugnizzo, uno dei tanti.
Un ragazzino che viveva in strada giocando a pallone e facendo a botte.
Il maestro nella foto ha uno sguardo un po’ truce, freddo,
anche per gli occhi molto chiari, ma pareva non fargli alcuna paura. Eppure era
molto severo e soleva educare i bambini a suon di bacchettate.
In un’altra foto infantile era in villa
comunale con il fratelli: Vittorio, di poco più grande e Angelo, in un
passeggino, piccoletto, dai riccioli biondi.
....
Era una delle solite
giornate torride in Libia. Calore, sabbia e polvere da sparo: un miscuglio che
gli ottundeva i polmoni da giorni. Insieme alla paura, che era diventata una compagna
inseparabile da mesi ormai. Ne aveva viste di tutte, orrori derubricati a
normalità, a stato delle cose.
Era nel mezzo di una
guerra, e come tale orribile, sporca, ingiusta e cattiva. Alfredo lo sapeva
bene, non aveva granchè studiato ma il cervello lo sapeva far funzionare. Molto
bene. Per questo, il suo innato senso pratico concluse che era importante
sopravvivere, poi il peggio sarebbe passato e avrebbe realizzato tutti i suoi
propositi.
Era un bel ragazzo,
tutti gli dicevano che somigliasse ad un famoso divo di Hollywood, Glenn Ford;
le donne non gli mancavano ma lui ne aveva una soltanto nel cuore: la sua
Maria, a cui scriveva lettere d’amore ovunque si trovasse in quegli anni
disgraziati che suo malgrado lo avevano portato a girare il mondo. Povertà,
solitudine, paure, venivano tutte cancellate dal ricordo di due occhi
nerissimi, delle labbra rosse e i capelli corvini di una ragazza semplice, nata
a Mergellina, oltre quel mare che ora
percepiva come nemico, come barriera che gli bloccava sogni e desideri.
Quel giorno si
parlava di grandi novità: lo sbarco degli alleati, l’8 settembre, la rivolta
della sua Napoli; la confusione era
davvero tanta. Gli alleati diventavano nemici e quelli che erano dall’altra
parte, nemici giurati fino al giorno prima, improvvisamente alleati. Ma le
notizie erano confuse. Alfredo capì soltanto che sarebbe tornato presto a casa
e la cosa lo rendeva euforico. Ripensò ai pericoli scampati, a quante volte era
stato sul punto di perdere le speranze. Ora pareva che davvero qualcosa si
stesse smuovendo.
Non gli erano mai
stati simpatici i vecchi alleati, i tedeschi,
ed anche per gli inglesi non nutriva una spiccata simpatia. Lo
intenerivano le vittime, gli abitanti di quelle terre oltre il mare ricchissime
di risorse, che gli uni e gli altri si proponevano di spremere all’osso. Così
sarebbe stato Alfredo, per tutta la vita: sempre dalla parte dei più deboli,
sempre a difendere chi vedeva calpestati i diritti elementari. La guerra lo
prendeva di striscio, non odiava nessuno e cercava di usare le armi il meno
possibile.
Si beccò un paio di
pallottole comunque e lo ricoverarono per qualche mese, sottraendolo a più
cruente esperienze che lo avrebbero privato di alcuni commilitoni, amici più
che altro.
Fu ferito mentre
trasportavano viveri su una camionetta attraverso il deserto. Fu un agguato che
falciò letteralmente una fila di soldati seduti da un lato e che fecero scudo,
coi loro corpi, alla fila di fronte dove sedeva Alfredo. Un puro caso. Se li
vide morire addosso quei compagni e tante volte negli anni raccontò di
quell’esperienza, che arricchiva ogni volta di dettagli, particolari,
descrizioni minuziose. Tra i caduti Aldo,un barbiere di Bergamo, fissato con il
biliardo e Salvatore di Roma, accanito scommetitore di cavalli. Li faceva
rivivere quei personaggi nei suoi racconti, come se le loro immagini si fossero
stampate come fotogrammi fissi nel suo cervello.
E poi c’era il deserto, il caldo, l’arsura.
Conservo foto anche
di quel periodo: in una era in gruppo, con una dozzina di compagni, immortalati
in un ospedale da campo, alcuni pieni di fasciature ma tutti con un bicchiere
in alto a brindare agli eventi del momento ed a ciò che sarebbe stato una volta
ritornati in Italia.
Federico, un amico e
compagno di quei giorni era l’unico interlocutore con cui riusciva a discutere,
a parlare del futuro senza farsi condizionare da un presente non certo roseo.
Entrambi avevano una visione nel complesso ottimistica, entrambi amavano una
donna che avrebbero voluto come compagna di vita, con cui procreare, per avere
figli e nipoti a cui raccontare quelle avventure. Alfredo ne avrebbe avuto
occasione, Federico no, perchè il caso, o il destino, non guarda in faccia a
nessuno e decide da solo, indipendentemente dalle aspettative e dalle speranze.
Intanto era arrivato il giorno fatidico.
Si partiva, si tornava a casa, l’entusiasmo era alle stelle,
le ferite neanche bruciavano più, si erano cicatrizzate all’istante.
Nell’aeroporto militare partivano a ripetizione i velivoli che avrebbero
ricondotto i soldati in Italia. L’organizzazione era approssimativa, non si
contavano i posti disponibili, gli aerei venivano riempiti finchè restava spazio.
Era un fuggi fuggi, un arrembaggio, ma tutti erano felici. La guerra era agli
sgoccioli.
Poi ci sarebbe stato il “dopo” pieno di progetti ma anche di
incognite.
Un dopo che sarebbe stato lungo e faticoso. Alfredo avrebbe ripreso
gli studi di geometra , si sarebbe diplomato e lo avrebbero assunto in
un’azienda dove sarebbe rimasto fino alla pensione. Avrebbe sposato, dopo un
po’ di anni la sua Maria e avuto una figlia.
-Alfredo fai presto, sbrigati, l’aereo è quasi pieno!
Urlava Federico in
quella mattina assolata.
Alfredo nel fervore
delle ultime cose si era attardato. Aveva una serie di bagagli, cimeli,
ricordi, tra cui un grande tappeto che avrebbe campeggiato per anni e anni come
arazzo sul muro del salotto di sua madre Modesta, monili che le donne del luogo
gli regalavano in cambio di cibo. Molti regali per Maria, come di ritorno da
una vacanza. Ma lui era così e quei giorni terribili e drammatici li avrebbe
ricordati per la vita intera e non solo in negativo.
Aveva conosciuto
realtà che ignorava, realtà dolorose, terribili e aveva cercato nel suo piccolo
di portare aiuto a qualcuno che ne avesse bisogno.
Così quella mattina attardandosi perse l’aereo e potè
salutare l’amico Federico solo da lontano, ripromettendosi di andarlo a
trovare, nel paesino in provincia di Avellino dove abitava, e di cui aveva
conservato con cura l’indirizzo.
Salì sull’aereo successivo e arrivò a destinazione, nella
sua Napoli.
Quell’aereo partito poco prima del suo cadde, fu abbattuto
dalla contraerea tedesca e morirono tutti i passeggeri.
Giorni dopo ci andò lo stesso nel paesino di Federico, a
salutare la madre e a portarle le condoglianze. Si trattenne a raccontare le
loro vicende, storie di guerra e di amicizia. Piansero entrambi.
Una storia come tante, che Alfredo raccontò tantissime
volte, ogni volta in modo diverso, con qualche particolare in più che gli
riaffiorava alla mente, qualche volta sorridendo, più spesso con una nota di
commozione sul volto e nella voce.
.....
Alfredo era mio padre. E se quel giorno non avesse ritardato
e perso l’aereo io non sarei qui. Non ci sarei neache se su quella camionetta
avessero sparato ai soldati della fila opposta. Non ci sarebbero i miei figli,
nè mio nipote. Non so dove nè cosa sarei, dove sarebbero i miei atomi, la mia
coscienza. Forse per l’economia generale dell’universo non sarebbe cambiato
nulla, per me e per le persone che mi sono care, sarebbe cambiato tutto.
Sono domande che mi faccio spesso ma non trovo risposta ,
perchè non c’è risposta: la cosa mi inquieta, non poco.
Nella vita abbiamo tante possibilità di scegliere per
decidere il nostro destino, alcune volte facciamo scelte palesemente sbagliate,
altre scegliamo senza neanche rendercene conto.
Mio padre non scelse,
fu il destino a scegliere per lui, e per me. Quel che è certo è che, se le cose
fossero andate diversamente, non avrei avuto una seconda occasione per venire
al mondo.
© Silvana Maroni