L’aveva intravista tra la folla e da quel momento non aveva avuto più pace. Ingrassata, invecchiata, imbruttita ma era lei sempre lei, con quel lampo negli occhi, le caviglie sottili e i capelli lunghissimi, ingrigiti ma mossi e folti. Era una dea, la dea dell’amore inappagato, dell’attesa, del rifiuto. Di un amore destinato a durare per tutta la vita.
Così era venuto fuori lo stalker che era
in lui: l’aveva seguita, pedinata per giorni e ora sapeva tutto, conosceva ogni
suo passo, ogni abitudine.
Era giunto il giorno. Il percorso era
studiato nei dettagli.
Indossò il suo abito migliore, la cravatta
Regimental, la camicia con i gemelli d’oro. Scivolò fuori di casa lasciandosi
alle spalle anni di disordine solitario. Tirò fuori l’auto dal garage, ripulita,
fresca di revisione e col serbatoio pieno. Una Miura rossa fiammante del ’67.
Mise in moto. La musica del motore era
sintonizzata sul ritmo della sua esistenza.
Imboccò Viale Savoia a 80 Km/h, vide un
vigile prendere nota della targa.
Sorrise.
Il primo semaforo era verde, come
previsto.
Accelerò. Verde anche il secondo.
Imboccò Corso Genova. Già vedeva la sua
meta.
In fondo le strisce pedonali, poi la
strada si biforcava, intorno al castello.
Accelerò ancora, scorgendo la sagoma nota,
i capelli increspati dal vento, il cappotto blu.
Accelerò, il rombo era assordante.
Scattò il rosso, verde per i pedoni.
Accelerò per l’ultima volta, lei si voltò,
con un lampo negli occhi, il solito.
Proseguì dritto, verso le mura.
© Silvana Maroni
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